Sulla natura dell’arbitrato l’ultima posizione delle Sezioni Unite sulla teoria generale dell’arbitrato.

Cass. Civ. Sez. Un. 3 Agosto 2000, n. 527.

Competenza e giurisdizione civile – Regolamento – Questione sulla giurisdizione arbitrale – Inammissibilità

La questione del difetto di giurisdizione degli arbitri, per essere la domanda devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, non è proponibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto il lodo arbitrale rituale non integra un provvedimento giurisdizionale.

(massima non ufficiale)

[OLLA, estensore, VELA Primo Presidente. Comune di Cinisello Balsamo, (Avv.ti Di Majo, Taglierini e Scalzaretto) contro A.E.M. (Avv.ti Romano, Mandrioli, Greco e Moscardini)]

Nota di Commento. Sulla natura dell’arbitrato: l’ultima posizione delle Sezioni Unite sulla teoria generale dell’arbitrato.

1.Il Caso.

Il Comune di Cinisello Balsamo, a fronte di un lodo rituale nel quale gli arbitri dichiaravano la propria carenza di giurisdizione, proponeva, pur nella pendenza della relativa impugnazione nanti la Corte d’Appello di Milano, regolamento preventivo di giurisdizione, al fine di far dichiarare la sussistenza della giurisdizione dell’A.g.o..

La Suprema Corte, affrontando il problema della ammissibilità del ricorso a tale strumento processuale, conferma, in ossequio ad un orientamento consolidato, che la questione relativa al difetto di giurisdizione degli arbitri non è proponibile con il regolamento di giurisdizione.

Ma se in precedenza si era da sempre ritenuto che l’inammissibilità discendesse dal solo fatto che il lodo stesso costituiva una decisione nel merito di primo grado, con la presente decisione la Cassazione sostiene che tale inammissibilità derivi dalla natura non giurisdizionale del lodo arbitrale rituale.

II. Le questioni.

La questione trattata è di estremo interesse, non tanto per quanto riguarda la decisione relativamente alla inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, ma quanto per le conseguenze che la posizione assunta dalla Suprema Corte, in ordine alla natura dell’arbitrato rituale, determina sulla teoria generale dell’arbitrato.

Se si portasse infatti alle estreme conseguenze il principio quivi affermato assisteremo, da un lato all’inevitabile estinzione dell’istituto dell’arbitrato irrituale (stante la assoluta identità con l’arbitrato rituale), e dall’altro ad un rovesciamento di principi che possono ritenersi consolidati.

a)Sulla natura dell’arbitrato in generale.

La sentenza che si annota si richiama all’orientamento, peraltro risalente, facente capo alla teoria cd. contrattualistica, la quale pare “risorgere” dopo anni di sopita quiescenza.

Il Chiovenda, infatti, che ne era il principale esponente, era stato il primo a sostenere (in un periodo storico nel quale l’istituto dell’arbitrato rituale così come lo conosciamo oggi, era fattispecie del tutto differente) che l’arbitrato in generale sarebbe stato privo di contenuto giurisdizionale. Secondo tale teoria l’attività dell’arbitro sarebbe stata priva di per sè, al pari del mero parere di un privato, di efficacia obbligatoria, acquistando il lodo natura giurisdizionale solo in via riflessa, a seguito del decreto di esecutorietà.

Riprendere il dibattito sulla natura dell’arbitrato rituale, dopo quasi cinquanta anni, appare quanto meno curioso.

In questa prospettiva, non ci si può peraltro esimere dal rilevare che, sia in dottrina che in giurisprudenza, ha senza alcun dubbio prevalso la teoria processualistica, secondo la quale la convenzione arbitrale è un negozio di diritto privato con effetti processuali, essendo la fonte del potere degli arbitri la volontà della legge.

Secondo tale ultima impostazione (che pare ancora oggi meritevole di adesione) gli arbitri svolgono quindi un’attività giurisdizionale vera e propria.

In quest’ottica si deve ritenere che l’affermazione della Cassazione sulla natura meramente privatistica dell’arbitrato, se si deve intendere nel senso che anche l’arbitrato rituale abbia natura contrattuale, e che quindi costituisca esclusivamente esercizio di una attività privatistica e non esercizio di un potere giurisdizionale (anche se delegato), non possa essere condivisa.

I motivi di tale dissenso sono plurimi.

E’ ben vero che nel sistema italiano è da sempre aperta, come dimostrano le pur sempre frequenti pronunce della Suprema Corte (tra cui si inserisce anche la decisione in commento), la questione relativa alla natura dei due tipi di “arbitrato” ed ai criteri distintivi dell’arbitrato rituale da un lato, rispetto all’arbitrato irrituale dall’altro lato.

Altrettanto vero è che molto si è discusso anche in ordine alla questione terminologica, affermandosi, ad esempio che la stessa attribuzione del termine “arbitrato” all’istituto del cd. “arbitrato irrituale” non sembrava corretta da un punto di vista semantico in quanto per arbitrato avrebbe comunque dovuto intendersi, in senso proprio, una procedura specifica, alternativa alla giurisdizione ma che concretava essa stessa una attività identica all’attività giurisdizionale (iuris dicere).

Sul punto si può affermare che se si considera, sul piano esegetico, “arbitrato” ogni metodo, come parrebbe dall’uso terminologico corrente, di risoluzione delle controversie diverso dall’attività giurisdizionale propria, dovrebbe allora parlarsi di arbitrato conciliativo, quando ad esempio le modalità di risoluzione delle controversie venga affidata ad un terzo in sede meramente conciliativa, e simili.

Ma in realtà, come si vedrà al proseguo, non può ritenersi che il cd. arbitrato irrituale e gli istituti affini costituiscano a tutti gli effetti un arbitrato nel senso proprio del termine, ritenuto che l’attribuzione del termine dovrebbe essere riservato solo ed esclusivamente ad una procedura alternativa alla giurisdizione, ma di identico contenuto (anche se al solo fine di evitare confusione si utilizzerà il termine di arbitrato, anche per distinguere l’arbitrato irrituale, essendo un tale utilizzo del termine ormai entrato nell’uso comune).

Secondo l’orientamento che sembrava consolidato (e che ancora oggi appare condivisibile) ciò che caratterizzava l’arbitrato irrituale rispetto all’arbitrato rituale, sarebbe stato il conferimento all’arbitro (o agli arbitri) del compito di definire in via negoziale (o meglio contrattuale) le contestazioni insorte o che avrebbero potuto insorgere tra le parti stesse in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse.

Quindi la composizione della controversia risultava vincolante grazie all’espressa obbligazione che le parti assumevano, nell’ambito del patto compromissorio, di ritenere che la decisione degli arbitri costituisse espressione diretta della loro volontà.

Tale era il percorso interpretativo seguito dalla Suprema Corte, che nasceva quale completamento di un iter giurisprudenziale e di una riflessione dottrinale che, sin dall’esordio dell’arbitrato irrituale o libero sulla scena processuale Italiana in contrapposizione con l’arbitrato rituale, ha costituito oggetto di un dibattito aspro, sia in ordine alla natura che al generale inquadramento dei due istituti.

Se secondo tale orientamento sulla natura negoziale dell’arbitrato irrituale non si poteva dissentire o esprimere consensi dubitativi, se non a prezzo della sua estinzione e sparizione (peraltro da molti, a seguito dell’ultima riforma, auspicata), altrettanto doveva dirsi per quanto riguarda la natura “processuale” dell’arbitrato rituale.

Anche se ancora aperta pare la questione non tanto relativamente alla natura processuale o sostanziale dell’istituto in generale, ma quanto alla esatta individuazione del contenuto e quindi della qualificazione dello stesso, la prassi ed il dato giurisprudenziale, sino alla sentenza de qua, estremamente chiaro, impongono che si effettui una ricostruzione ed una chiara distinzione dell’arbitrato irrituale dall’arbitrato rituale, considerando ed argomentando sempre e costantemente dalla natura dell’uno rispetto all’altro. Partendo da tale considerazione si può quindi affermare, in linea di principio che: a)nell’arbitrato irrituale si affida agli arbitri il compito di definire in via negoziale e sostanziale le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, utilizzando lo strumento contrattuale; b)nell’arbitrato rituale il potere di decidere degli arbitri, così come il contenuto, i limiti, le regole e la natura stessa della decisione, trovano la loro fonte nella disciplina speciale contenuta nel codice di rito.

Il problema che si pone e ci si deve porre quindi non è tanto o più quello della legittimazione o meno del cd. arbitrato irrituale o della natura dell’arbitrato rituale, ma quello della delimitazione ed esatta circoscrizione dei rispettivi limiti e contenuti.

Ora, se per arbitrato irrituale intendiamo un sistema di risoluzione di una controversia affidato a privati, i quali esercitano una potestà del tutto simile alla potestà giurisdizionale, ma svincolato dalle necessarie garanzie che sono state approntate dall’ordinamento per l’arbitrato rituale, già più volte abbiamo sostenuto che tale sistema non ci pare sia meritevole di tutela e quindi non abbia diritto di ingresso nel nostro ordinamento.

Che senso avrebbe, infatti, stabilire nel codice di rito delle regole procedurali ben delineate e delle norme di ordine pubblico e quindi inderogabili, per l’arbitrato inteso come coacervo di regole procedurali finalizzate alla risoluzione di una controversia, se può coesistere un identico sistema di risoluzione della controversia, senza vincoli di alcun genere?

Delle due l’una: o l’arbitrato e cioè qualsivoglia sistema di risoluzione delle controversie alternativa alla giurisdizione è ritenuto dal ns. legislatore libero da vincoli di vario genere ed è affidato integralmente alla scelta dei “privati” o altrimenti le regole dettate nel sistema (e quindi le regole del codice di procedura) non possono che valere per ogni genere di arbitrato.

Ora è ben vero, e non si può negare, come sottolineato dalla sentenza in oggetto, che l’arbitrato, ogni forma di arbitrato sia espressione di un fenomeno giusprivatistico, ma è altrettanto vero che tale fenomeno si atteggia diversamente a seconda delle modalità di esercizio e del contenuto di ciascuna forma e tipo di arbitrato.

E nessun dubbio può più sussistere sul fatto che solo l’atto di determinazione del o degli arbitri liberi abbia natura sostanziale e precisamente natura “contrattuale”.

Tale affermazione nasce da un rilievo sistematico che si impone a seguito della riforma dell’arbitrato rituale attuata nel 1994, con la quale è innegabile che si sia riconosciuto e legittimato nell’arbitrato rituale una vera e propria “giurisdizione dei privati”.

Le modifiche apportate, infatti, alla disciplina dell’arbitrato rituale, come rilevato da alcuni autori erano tali che avrebbero potuto certamente determinare la fine dell’arbitrato irrituale, se ed in quanto tale istituto non avesse avuto una forza propria, o meglio non fosse stato in grado di mantenere una rilevante differenziazione rispetto all’arbitrato di rito. A prima vista, pareva evidente, seguendo la tesi cd. unitaria, che a seguito della riforma, poche o meglio, pochissime differenze sarebbero rimaste tra i due istituti, determinandosi così una forma di “assorbimento” ed uniformazione rivolta verso l’arbitrato di rito.

Uniformazione (e quindi eliminazione di ogni differenza) che, seguendo invece l’impostazione data dalla decisione in commento, sarebbe portata alle estreme conseguenze determinando però l’effetto contrario e cioè una attrazione dell’arbitrato rituale verso l’arbitrato irrituale.

Come abbiamo visto, invece, il dato della prassi giurisprudenziale ha confermato, sino ad oggi, che tale uniformazione, che avrebbe portato alla confusione degli istituti, o meglio alla sparizione dell’arbitrato irrituale non si era e non si può ritenere si sia ancora verificata.

Altrettanto vero è pero che ancora oggi, specialmente da parte di alcuni giudici di merito, vengono espressi alcuni dubbi sulla differenza tra gli istituti e soprattutto sulla natura propria dell’arbitrato irrituale o improprio.

Il dubbio che si pone riguarda la evidente contraddittorietà che si riscontra nella configurazione giurisprudenziale attuale data, in particolare all’arbitrato irrituale, in relazione alla differente natura dell’arbitrato rituale, e cioè: a)la richiesta e presupposta neutralità degli arbitri mandatari, nell’arbitrato irrituale rispetto alla controversia (caratterizzerebbe certamente meglio la natura sostanziale del rapporto il fatto che il mandatario non fosse in posizione di neutralità, ma fosse, anzi, come è più proprio del rapporto sostanziale in posizione di parziarietà, dovendo perseguire gli interessi del proprio mandante; sarebbe quindi, in tale prospettiva proprio la posizione di neutralità, caratteristica peculiare del giudice o dell’arbitro in senso proprio, che dovrebbe portare ad escludere la natura sostanziale del rapporto) ; b)il numero dispari degli arbitri mandatari (la natura sostanziale e la generica applicabilità delle norme in tema di mandato, non impongono un numero dispari di mandatari, ma anzi, se l’oggetto del mandato conferito è la stipula di un negozio sostanziale, che possa eliminare la controversia insorta (sia esso una transazione o un negozio di accertamento o altro tipo contrattuale), che produca gli effetti direttamente nei confronti dei mandanti vincolando essi stessi al negozio, tipico è, nei negozi sostanziali, che ciascuna parte nomini un suo mandatario, essendo ipotesi assai rara la nomina di mandatari congiunti); c)la trasfusione di regole processuali all’istituto dell’arbitrato irrituale, pur venendo lo stesso definito di “natura sostanziale”; d) l’esistenza di una clausola definita compromissoria, per indicare la devoluzione della controversia ai mandatari – arbitri irrituali pur non potendosi definire, in senso proprio e cioè in ossequio al preciso dettato codicistico, tale clausola come “compromissoria”.

Attenendosi al dato giurisprudenziale prevalente, deve rilevarsi che la Suprema Corte ed anche molti giudici del merito, ritengono di poter interpretare la clausola inserita nel contratto, quale clausola compromissoria per arbitrato rituale, qualora nella stessa vengano utilizzate dalle parti espressioni proprie del procedimento giurisdizionale quali il deferimento agli arbitri del compito di giudicare le controversie, e/o locuzioni quali controversie, giudizio, e pur ritenendo caratterizzato l’arbitrato irrituale dalla sua natura sostanziale, non portano, nel senso sopra indicato, tale affermazione alle inevitabili conseguenze.

E’ infatti costante l’affermazione della giurisprudenza secondo la quale in tema di arbitrato irrituale, non possono essere ritenuti elementi decisivi alla legittima configurabilità dell’istituto (onde escludere la sussistenza della diversa figura dell’arbitrato rituale) nè il conferimento agli arbitri della potestà di decidere secondo equità, ovvero in veste di amichevoli compositori (non essendo tale specificazione del criterio di definizione della controversia incompatibile con l’arbitrato rituale, nel quale ben possono gli arbitri essere investiti dell’esercizio di poteri equitativi), nè la preventiva attribuzione alla pronuncia arbitrale del carattere della inappellabilità (carattere ipotizzabile anche con riferimento al lodo da arbitrato rituale, ex art. 829 c.p.c., con il solo effetto della esclusione della deducibilità dell’error in iudicando), nè tanto meno la previsione di esonero degli arbitri da “formalità di procedura” (previsione non incompatibile con l’istituto dell’arbitrato rituale, giusta disposto dell’art. 816 c.p.c.), dovendosi, per converso, valorizzare, ai fini di una corretta lettura della volontà delle parti compromesse in arbitri, espressioni terminologiche congruenti con l’attività del “giudicare” e con il risultato di un “giudizio” in ordine ad una “controversia” (specie se concernente questioni schiettamente giuridiche e non tecniche), compatibili, cioè, con la previsione di un arbitrato rituale.

E’ quindi evidente che l’indagine nel merito della clausola, secondo tale orientamento, viene effettuato vagliando l’effettiva natura “sostanziale” della clausola per arbitrato irrituale, anche se poi, come si rilevava, nei fatti le differenze rilevate dalla Suprema Corte tra i due istituti, non paiono decisive.

In molti casi pare avvalorato il dubbio che la Suprema Corte legittimi una terza forma di arbitrato, che pare non ammissibile nel ns. ordinamento, e cioè un arbitrato a metà tra il rituale e l’irrituale, nel senso sopra delineato.

Ma se si da per certo, e su questo non paiono esserci dissensi anche in dottrina, che sia la natura sostanziale del risultato finale, rispetto all’arbitrato rituale, è sul piano ermeneutico che la giurisprudenza deve operare al fine di distinguere correttamente i due istituti, e soprattutto di evitare confusione tra gli stessi.

E gli indici rivelatori di una scelta delle parti verso un mandato volto a definire in via sostanziale la res litigiosa, non possono che rinvenirsi nell’effettiva natura sostanziale dell’oggetto del mandato conferito, che deve essere vagliata dall’interprete con un evidentemente maggior rigore.

Entrando brevemente nel merito non si può non rilevare, in estrema sintesi che, come sopra specificato, la caratterizzazione dell’istituto definito “arbitrato” irrituale, debba necessariamente rinvenirsi in una serie di differenziazioni “forti” e pregnanti, rispetto all’arbitrato di rito.

Contrariamente a quanto sino ad oggi ritenuto dalla giurisprudenza, deve ritenersi che indice rivelatore della natura sostanziale del rapporto sia che, i mandatari, ai quali le parti si sono rivolte per risolvere la controversia mediante la stipula di un negozio di natura sostanziale, non siano in posizione di neutralità, ma siano, come è proprio del rapporto sostanziale in posizione di parziarietà, dovendo, ciascuno perseguire gli interessi del proprio mandante.

Dovrà quindi ritenersi indice rivelatore di un rapporto processuale (e di attribuzione, anche se nei limiti stabiliti dal codice di rito, di un potere giurisdizionale delegato) e quindi di una richiesta di arbitrato rituale delle parti (anche se eventualmente di equità, o non appellabile) la scelta di un numero dispari dei mandatari, la imposizione di un obbligo di neutralità rispetto alle parti stesse, l’applicazione di regole processuali proprie dell’arbitrato rituale, quale la previsione dello scambio di memorie, di termini per il deposito di documenti e simili.

Risulta evidente che, in difetto di imposizione di limiti certi a tale istituto, l’attuale configurazione dell’istituto dell’arbitrato irrituale ricavantesi dalle statuizioni della giurisprudenza, per quanto sia pregevole il tentativo di parte della giurisprudenza di estendere regole e principi propri dell’arbitrato rituale, porta ed ha portato, nei fatti, a veder introdotto nel nostro ordinamento un istituto, nei fatti, del tutto identico all’arbitrato regolato dal codice di rito, ma svincolato da ogni regola e principio, e quindi, come definito da parte della dottrina, libero in tutti i sensi.

Il chè non solo non pare corretto da un punto di vista generale (l’interesse ad eseguire il lodo rituale o irrituale è identico per le parti, in caso di mancata spontanea adesione della parte soccombente, e cioè sia che si tratti di arbitrato rituale che di irrituale) ma determina non pochi problemi di coordinamento con altre disposizioni dell’ordinamento.

Deve infatti rilevarsi che proprio grazie a tale attuale impostazione ed alla mancata presa di posizione, in modo deciso, della Suprema Corte, sono state poste nel nulla gran parte delle cautele imposte dalla Comunità Europea, ad esempio mediante la direttiva a tutela dei consumatori , i quali si trovano, ancora oggi, nell’impossibilità di agire in giudizio qualora, per ventura, in un contratto tipo sia stata inserita una clausola, che, secondo i canoni ermeneutici in oggi applicati, viene definita per “arbitrato irrituale”.

Orbene, data la natura contrattuale e sostanziale di una tale clausola, in linea di principio, ad esempio, il consumatore si trova, nel sistema italiano così come delineato: a)vincolato ad una tale clausola, anche senza che la stessa possa dallo stesso essere stata sottoscritta (la natura sostanziale della clausola, come affermato dalla Cassazione, impone la forma necessaria per l’oggetto del contratto e quindi in ipotesi di beni mobili, non è necessaria alcuna forma scritta); b)impossibilitato, sempre data tale natura, ad agire non solo in via ordinaria, ma, anche in via cautelare.

Il tutto sulla scorta di una mera interpretazione e prassi giudiziaria, che, anche alla luce delle innovazioni legislative pare debba essere oggetto di attenta rimeditazione.

Non ci si può nascondere che la distinzione tra i due istituti e quindi la configurazione dell’arbitrato “irrituale” così come delineato dalla copiosa giurisprudenza della Suprema Corte, sul tema, costituisca un “unicum” del sistema italiano, e necessiti, anche in prospettiva europea, di una delimitazione univoca relativamente al contenuto, alle regole ed alla disciplina applicabili.

E’ ben vero, come ritenuto da alcuni autori  che la differenza che caratterizzerebbe l’arbitrato irrituale non può rinvenirsi nel fatto che agli arbitri “irrituali” sia stato conferito un mandato al fine di stipulare, un “negozio di accertamento” di natura sostanziale, in quanto l’attività svolta dagli arbitri in cui si concreterebbe tale negozio di accertamento corrisponderebbe ad una vera e propria attività giurisdizionale in senso stretto, del tutto identica all’attività svolta dagli arbitri rituali.

Si deve infatti osservare che la causa di tale contratto atipico, è proprio quella di risolvere una situazione giuridicamente incerta e cioè accertare dei fatti e configurarli giuridicamente in modo da risolvere tra le parti un eventuale ed ipotetico “motivo del contendere”.

D’altronde neppure la configurazione alla stregua di un mandato a transigere pare cogliere nel segno, laddove, come rilevato da CECCHELLA, è realistico ritenere che le parti, conferendo mandato irrituale, non intendono né rinunciare né lasciare campo libero ad una volontà conciliativa inesistente.

Ma, da tali considerazioni, nasce spontanea la domanda, che affligge da tempo immemorabile la dottrina: quale è allora la effettiva natura dell’arbitrato irrituale, in relazione all’arbitrato rituale?

E’ la stessa domanda che è posta in modo non corretto, ritenuto che la problematica che rileva al fine di un esatto inquadramento sistematico dell’istituto arbitrale in generale, non è tanto o meglio non è solo quello della qualificazione ma, come dicevamo, quella della esatta individuazione dei limiti e del contenuto di ciascun istituto.

La risposta alla domanda, potrebbe d’altronde riassumersi assai semplicisticamente, nell’affermazione secondo la quale l’arbitrato irrituale o improprio ha natura mista, e nel lodo irrituale si concreta un contratto atipico, che, nei limiti e con le precisazioni di seguito esplicitate, risulta superare il vaglio di meritevolezza della tutela.

Se peraltro in relazione all’arbitrato rituale non si pongono rilevanti problemi, abbiamo invece già rilevato che, secondo la attuale prassi giurisprudenziale, si riscontra una certa contraddittorietà, in alcune caratteristiche ritenute proprie dell’istituto dell’arbitrato irrituale.

Se si parte dalla considerazione, pienamente condivisibile che sia la natura sostanziale del risultato finale e dell’oggetto del mandato conferito ai mandatari – arbitri irrituali, rispetto all’arbitrato rituale, deve operarsi sul piano ermeneutico al fine di distinguere correttamente i due istituti, e quindi al fine di correttamente delimitare l’ambito di operatività dell’arbitrato irrituale.

Ed è evidente che non possiamo, se non a pena di una totale equiparazione all’arbitrato rituale, intendere l’arbitrato irrituale alla stregua di un sistema di risoluzione di controversie affidato a privati, i quali esercitano una potestà del tutto simile alla potestà giurisdizionale, ma, come dicevamo, svincolato dalle necessarie garanzie che sono state approntate dall’ordinamento per l’arbitrato rituale.

Se si accede a tale interpretazione, l’equiparazione tra i due istituti, parrebbe totale, e l’affermazione della natura sostanziale dell’uno rispetto all’altro, non sarebbe null’altro che una fictio juris, priva di alcun rilievo sistematico.

Né si venga a dire che comunque vi sarebbe una caratterizzazione dell’istituto, proprio a cagione della mancanza di regole, individuando la differenza tra i due istituti sotto il profilo della sussistenza o carenza di regole procedimentali.

A parte la considerazione che nell’arbitrato rituale l’art. 816 C.p.c. stabilisce che vi sia una generale libertà delle parti nella determinazione delle regole delle parti, non si può non rilevare che le regole procedimentali inderogabili dettate dal codice in materia arbitrale, riguardano solamente gli aspetti più importanti posti a presidio del corretto svolgimento di qualsivoglia procedimento in senso lato, e non si vede il perché debbano risultare non applicabili a qualsivoglia arbitrato.

Sulla scorta di tale dubbio la risposta verrebbe naturalmente dalla teoria unitaria, la quale, ritenendo sussistere minime differenze tra i due istituti, risponderebbe e risponde ritenendo certamente applicabili i fondamentali principi dettati per qualsivoglia arbitrato anche all’arbitrato irrituale.

Ma abbiamo visto che tale scelta, che porterebbe, nei fatti, ad una estinzione per “inutilità” dell’arbitrato irrituale non può essere condivisa, anche se occorre sottolineare che nella prassi in moltissimi procedimenti definiti anche dalla giurisprudenza come irrituali, si celano, per modalità esecutive, norme applicate, criteri distintivi, natura delle statuizioni degli arbitrati rituali a tutti gli effetti.

E l’unico prezzo che si deve pagare per evitare una dannosa confusione tra i due istituti, o addirittura, come dicevamo, l’estinzione dell’arbitrato irrituale  è l’assumere quali indici rivelatori di una scelta delle parti verso un mandato volto a definire in via sostanziale la res litigiosa, l’effettività della natura sostanziale dell’oggetto del mandato conferito, effettività che deve essere vagliata dall’interprete con un evidentemente maggior rigore.

Dalla considerazione generale della giurisprudenza e della dottrina richiamata, può in conclusione affermarsi che solo l’arbitrato irrituale, o meglio l’atto di determinazione del o degli arbitri liberi abbia natura sostanziale e precisamente natura “contrattuale”, e che lo stesso si possa qualificare come un contratto atipico, che, nei limiti e con le precisazioni sopra specificate, risulta superare il vaglio di meritevolezza di cui all’art. 1322 Codice Civile.

Che il contenuto di tale contratto sia “complesso” partecipando di più elementi ora assimilabili ad un mandato congiunto ora ad un negozio di accertamento ora all’arbitraggio e simili, questo è indiscutibile.

Ma altrettanto indiscutibile è il fatto che una volta individuata la natura concreta dell’istituto, ed il suo contenuto e delimitazione, la discussione sulla precisa natura dello stesso, costituisce discussione piuttosto sterile.

Non tanto perché non sia, in linea estremamente astratta, utile sussumere il contratto atipico così delineato sotto l’egida più dell’arbitraggio che del negozio di accertamento, quanto perché una volta chiarita la questione sulla natura dell’istituto, nel senso sopra delineato, si è già arrivati a: a)stabilire, la generale disciplina applicabile, e cioè le generali norme dettate per ogni contratto, e quindi forma, contenuto, risoluzione, etcc..; b)le conseguenze inerenti all’inadempimento, e quindi gravità, risarcimento del danno, etcc..; c)le possibilità ed i limiti per far valere eventuali vizi della volontà, nella determinazione, etcc..

D’altronde risulta anche difficile stabilire, preventivamente, la qualificazione di questo istituto ritenuto che il contenuto della pattuizione contrattuale può naturalmente assumere connotazioni sempre più diverse, a seconda della clausola o del compromesso intercorso, della volontà espressa dalle parti, etcc…

Vale peraltro la pena, riportare l’affermazione, pienamente condivisibile di BENATTI , il quale ritiene “Ma anche a voler seguire la tesi tradizionale, la soluzione prospettata per l’arbitrato libero non muta. Esso è oramai entrato a far parte del diritto applicato; è un istituto presente nella nostra esperienza giuridica ed accolto dall’ordinamento. Se questo è vero, e cioè che il legislatore riconosce ai privati il potere di regolare negozialmente la soluzione delle loro controversie, ciò implica necessariamente, che esso riconosce che in quel potere è ricompresso anche quello di forgiare la fattispecie: così non si contraddice alla notazione di Irti, secondo cui la delega ai privati del potere di descrivere la fattispecie è riservata al legislatore “che ne userebbe con misura e discrezione”: un suo uso è fatto con l’inserimento dell’arbitrato libero nel sistema attraverso l’art. 1322 Codice Civile. “

b)Considerazioni conclusive.

In questa sede, sulla questione generale delle differenze tra i due istituti e sulla acclarata (anche se occorre ribadirlo, con i limiti stabiliti dal codice di rito) natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale, possono svolgersi alcune considerazioni di ordine sistematico.

Per quanto effettivamente, come ritenuto da gran parte della dottrina, l’arbitrato costituisca sempre lo strumento principale tra i mezzi di soluzione alternativi al processo ordinario, il rilievo assunto da una serie di procedimenti similari, o affini per contenuto, all’arbitrato irrituale, così come delineato in precedenza, è in questi tempi divenuto sempre maggiore.

La dimostrazione è data sia dalla continua e generale riflessione della dottrina sul tema, sia dell’affermarsi pian piano, grazie o meglio a causa e cagione della continua inflazione e eccessiva durata dei procedimenti ordinari di cognizione, nell’ambito commerciale di soluzioni che non costringano le parti ad adire l’autorità giudiziaria ordinaria, se non in casi estremi.

E’ ben vero peraltro che tali istituti o meglio tali mezzi alternativi al processo ordinario, hanno trovato una cassa di risonanza rilevante, grazie all’esperienza statunitense, della mediation e delle cd. ADR, e cioè delle alternative dispute resolutions, ma è altrettanto vero che, indipendentemente dalle modifiche legislative apportate, anche alla stregua delle raccomandazioni dell’Unione Europea, il nostro ordinamento aveva da tempo gli strumenti per definire, in via alternativa alla fase giudiziale vera e propria, un eventuale contenzioso tra le parti.

Il principale strumento alternativo era ed è tutt’oggi l’arbitrato irrituale, come modello sostanziale di risoluzione delle controversie, ma accanto ad esso esistevano da tempo le figure dell’arbitraggio, della conciliazione giudiziale e stragiudiziale, della perizia contrattuale e così via.

Eccetto l’arbitrato irrituale, si trattava naturalmente di istituti che erano stati posti al margine e poco utilizzati da una prassi, che, specialmente negli anni 50 e 60 vedeva nel solo magistrato togato e nella giustizia ordinaria, quelle garanzie di imparzialità e/o di corretta definizione del contenzioso.

Per la qualificazione dei tali procedure che abbiamo sussulìnto sotto l’egida, piuttosto generica di “istituti affini all’arbitro irrituale”, per sottolineare una caratteristica peculiare degli stessi, ALPA propone la generica definizione “di mezzi stragiudiziali per la risoluzione di controversie”, affermando che “L’espressione mezzi stragiudiziali è volutamente ampia, imprecisa, generica, ogni qualificazione ulteriore imponendo un riferimento a classificazioni, quindi ad un impianto concettuale e a riferimenti normativi (interni, internazionali, comunitari) che richiedono una più analitica descrizione e si porrebbero alle soglie del discorso, come un ùsteron pròteron che deve essere evitato.”

Per quanto non particolarmente caratterizzante, la definizione può sicuramente accettarsi, pur dovendosi sottolineare che nel nostro ordinamento, in molti casi ciò che caratterizza una serie di procedimenti, che, come dicevamo, presentano notevoli affinità con l’arbitrato irrituale, è la loro natura sostanziale, o meglio la natura sostanziale dell’atto in cui viene definito il motivo di contensa tra le parti.

Dalle considerazioni in precedenza svolte si può certamente affermare che esiste una generale categoria, implicitamente individuata dalla giurisprudenza , di clausole e “procedure” in senso lato, che sono caratterizzate dal fatto che il risultato finale immediato perseguito dalle parti non è l’ottenimento di una decisione giudiziale o di un lodo alla stessa assimilabile, ma di un atto di natura sostanziale riconducibile alla volontà dei mandanti, alla stregua di un mandato con rappresentanza.

In tale generale categoria si possono annoverare accanto all’arbitrato irrituale, le clausole di conciliazione e/o le relative procedure di conciliazione stragiudiziale, le ADR, e finanche la perizia contrattuale.

In uno sforzo definitorio, può definirsi la categoria così delineata, come “modelli sostanziali di risoluzione delle controversie”, categoria alternativa alla contrapposta categoria dei modelli di risoluzione processuale delle controversie.

E’ peraltro evidente che, per quanto i vari tipi di modelli sostanziali di risoluzione delle controversia siano differenti tra di loro, tutti si caratterizzano per la natura sostanziale dell’atto finale, nel quale si concreta l’adempimento e l’esaurimento del mandato conferito ai mandatari-arbitri.

Tale definizione non pare far torto a nessuno. E’ infatti incontrovertibile che, pur nella natura sostanziale di tali istituti, e quindi anche dell’arbitrato irrituale, il fine di tutti tali strumenti sia quello di superare una controversia insorta o che potrebbe insorge, ma è altrettanto chiaro che tutti sono caratterizzati da una modalità di definizione o di soluzione della controversia, mediante un componimento di natura sostanziale.

E’ infatti condivisibile l’affermazione del FAZZALARI , e di quegli autori che sostengono una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, quando affermano che sia l’arbitrato irrituale che l’arbitrato rituale costituiscono

“strumenti di soluzione di una lite…..”

ma è evidente, dalle considerazioni in precedenza svolte, che tale qualità non pare caratterizzare più di tanto i due istituti, né tanto meno gli istituti affini.

A ben vedere anche la transazione costituisce un generale strumento di soluzione di una lite, ma è chiaro a tutti che il contratto di transazione, così come definito dall’art. 1965 Codice Civile, nulla ha direttamente a che vedere con il procedimento arbitrale.

Come rileva RUBINO SAMMARTANO , “l’arbitrato lungi dal rappresentare l’unica alternativa al contenzioso statuale, annovera ai suoi confini una serie di istituti che, se pur da esso rigorosamente da distinguersi, hanno tuttavia con esso in comune lo scopo di risolvere quando non addirittura di prevenire, le controversie.”

In conclusione pare non condivisibile l’affermazione della Suprema Corte, in ordine alla natura non giurisdizionale dell’arbitrato rituale, in quanto, sulla scorta delle considerazioni in precedenza svolte, non pare indubitabile in linea di principio che sia delegabile a privati (se tale delega trova fonte nella legge, e con i limiti ivi previsti, ad esempio sulla possibile compromettibilità delle controversie) l’esercizio di un potere giurisdizionale limitato.

Quando infatti si afferma che il lodo rituale ha natura giurisdizionale si afferma che esso è in tutto e per tutto assimilabile ad una sentenza di primo grado, ma non si afferma ad esempio che gli arbitri debbano considerarsi “organi giurisdizionali” dello Stato; non si afferma che gli arbitri, possano esercitare in pieno lo ius imperii (alla stregua di qualsivoglia magistrato ordinario); ma si afferma che solo il lodo e cioè il risultato del procedimento specificatamente regolamentato dal codice di rito nel titolo VIII del libro quarto, costituisce il prodotto di una attività giurisdizionale. E ciò in quanto esiste una specifica delega legislativa primaria di tale potere, peraltro assai limitato, agli arbitri rituali.

III. I precedenti.

a)Sul regolamento preventivo di giurisdizione e sulla questione della inammissibilità dello stesso in ordine alla questione di giurisdizione degli arbitri.

In senso conforme alla presente sentenza si segnala, tra le altre Cass. Civ. Sez. Un. 11 giugno 2001, n. 7858 in Guida al Diritto, 2001, 35, 50.

La giurisprudenza, come peraltro sottolineato dalla sentenza in commento, si è da sempre occupata della questione.

Afferma ad esempio Cass. civ., sez. un. (ord.), 26 aprile 1996, n. 377 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999) “La questione di difetto di giurisdizione degli arbitri – per essere la causa devoluta alla cognizione del giudice ordinario o di quello amministrativo – non è proponibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, nel corso del giudizio arbitrale, in quanto detto regolamento postula un procedimento davanti agli organi giurisdizionali dello Stato, tra i quali non rientrano gli arbitri, neanche dopo le modifiche della disciplina dell’arbitrato introdotte con la legge n. 25 del 1994.”  Ed anche (Cass. civ., sez. un., 24 maggio 1995, n. 5690 in Giust. Civ., 1995, I, 2365) che “La questione del difetto di giurisdizione degli arbitri, per essere la domanda devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, non è proponibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, in corso di giudizio arbitrale, atteso che tale regolamento postula un procedimento davanti agli organi giurisdizionali dello Stato.”

Sul punto si veda anche Cass. civ. (ord.), 27 gennaio 1989, n. 24 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999) “Il regolamento preventivo di giurisdizione, che sia proposto, in relazione a procedimento di delibazione di pronuncia arbitrale straniera, per contestare la validità della deroga alla giurisdizione del giudice italiano in favore di arbitri esteri, è inammissibile, perché detta questione, inerente ad una delle condizioni per la delibabilità di quella pronuncia, riguarda il fondamento nel merito dell’istanza di delibazione, non la giurisdizione del giudice con essa adito.”

In ordine all’arbitrato irrituale Cass. civ., 6 novembre 1984, n. 5601 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999) afferma che “In difetto del potere del giudice di statuire sulla domanda, tanto in via ordinaria, quanto in via cautelare, per effetto di un compromesso per arbitrato irrituale, non investe una questione di giurisdizione, e, pertanto, non può essere dedotto con istanza di regolamento preventivo, tenuto conto che quel compromesso, traducendosi in un mandato agli arbitri per l’espletamento di una attività negoziale in sostituzione delle parti (e non di una attività di natura giurisdizionale), determina l’improponibilità della domanda per rinuncia all’azione.”

Sulla questione del difetto di giurisdizione si consenta di riportare Cass. civ., 10 dicembre 1981, n. 6530 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999) la quale afferma, in ossequio al precedente orientamento disatteso dalla sentenza che si annota, che “La questione del difetto di giurisdizione degli arbitri, per essere la domanda devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, non è proponibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, né in corso di giudizio arbitrale, atteso che tale regolamento postula un procedimento davanti agli organi giurisdizionali dello stato, né in pendenza della impugnazione per nullità del lodo arbitrale, tenuto conto che il lodo stesso, dopo il decreto di esecutività del pretore, integra un provvedimento giurisdizionale, e detta impugnazione per nullità configura una fase di secondo grado del processo, sia pure limitata alla denuncia di determinati vizi, sicché l’esperibilità del regolamento trova ostacolo nell’esistenza di una decisione nel merito in primo grado.”

b)Sulla natura dell’arbitrato rituale in rapporto all’arbitrato irrituale.

L’impostazione della Cassazione, esposta nella sentenza che si annota, pare costituire orientamento seguito anche in decisioni più recenti. In senso conforme si segnalano Cass. Civ. 13 aprile 2001, n. 5527 (in Mass. Ann. Cass. 2001) e la già richiamata Cass. Civ. Sez. Un. 11 giugno 2001, n. 7858 in Guida al Diritto, 2001, 35, 50.

Da ultimo si segnala anche Cass. Civ.  29 maggio 2000 n. 7045 (in Mass. Ann. Cass. 2000) la quale afferma, con pronuncia assolutamente innovativa che “Il principio di imparzialità – terzeità della giurisdizione, pur essendo di ordine generale e di rango costituzionale, valido in relazione ad ogni tipo di giudizio, non può trovare diretta ed immediata applicazione nell’arbitrato irrituale, atteso che la relativa determinazione è frutto di mera attività negoziale e che l’impugnazione del provvedimento adottato dall’arbitratore può effettuarsi solo attraverso la deduzione di vizi del negozio o della responsabilità dell’arbitro – mandatario; ne consegue che l’assenza di terzeità dell’arbitro irrituale designato con mandato collettivo deve necessariamente essere proposta e dedotta attraverso l’azione di cui all’art. 1725 c.c. ossia prospettando una giusta causa di revoca, nonché la conseguente nullità della determinazione che sia stata nondimeno adottata.”

Affermava invece, sulla natura dell’arbitrato, con particolare riguardo all’arbitrato irrituale Cass. Civ. 24 luglio 1997 n. 6928 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999), in parte motiva, che: Omissis.. Secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, condiviso dal   Collegio, qualora in un giudizio introdotto davanti al giudice   ordinario il convenuto eccepisca tempestivamente l’esistenza di una   clausola compromissoria, il giudice adito, ove ravvisi la pattuizione   di un arbitrato irrituale sostitutivo della autonomia negoziale delle   parti, deve limitarsi a rilevare la mancanza delle condizioni per la   proponibilita’ dell’azione giudiziaria sotto il profilo della carenza   di interesse; in tal caso, la sentenza del giudice ordinario, anche   se impropriamente redatta in termini di affermazione o declinatoria   della propria competenza, e’ una pronuncia di merito, impugnabile con   lo appello (ovvero, se ne ricorrano i presupposti, con il ricorso per   cassazione), ma non con il regolamento di competenza (cfr., e   plurimis, sentt. nn. 8610 del 1987 e 9694 del 1990).   Cio’ posto, e’ noto che, al fine di accertare se una determinata   clausola compromissoria prefiguri un arbitrato rituale o irrituale –   il che comporta un esame diretto degli atti anche da parte della   Corte di Cassazione ove la relativa questione incida su problemi   processuali concernenti l’oggetto del giudizio di legittimita’ (come   nella specie, trattandosi di regolamento di competenza) – deve aversi   riguardo all’effettiva volonta’ delle parti desumibile dallo intero   contesto della pattuizione e non dall’una o dall’altra delle   espressioni usate singolarmente (cfr. Cass. n. 10240 del 1992); che   ricorre la prima ipotesi (arbitrato rituale), allorquando le parti   abbiano conferito ad uno o piu’ terzi lo incarico di risolvere   determiniate o determinabili controversie, che siano insorte o   possano insorgere tra loro, essenzialmente con gli stessi poteri ed   obblighi e con gli stessi effetti propri della funzione   giurisdizionale, mentre ricorre la seconda (arbitrato irrituale),   allorche’ al terzo od ai terzi si affida il compito di definire in   via negoziale le contestazioni insorte tra le parti in ordine a   determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole,   conciliativa o transattiva o con un negozio di accertamento, l’una e   l’altro direttamente riconducibili alla volonta’ delle parti e da   valere come contratto da costoro concluso (cfr. Cass. nn. 268 del   1984 e 11357 del 1994); e che, ove allo esito della indagine –   condotta non tanto sulle espressioni letterali usate, quanto sul   contenuto sostanziale delle clausole contrattuali e delle finalita’   perseguite – permanga incertezza sulla qualificazione (siccome   rituale o irrituale) dello arbitrato, la incertezza medesima deve   essere risolta nel senso che le parti abbiano inteso prevedere un   arbitrato irrituale (cfr., e plurimis, Cass. nn. 268 del 1984 cit. e   2315 del 1990).   Premessi tali principi, non v’e’ dubbio che la clausola   compromissoria “de qua” debba intendersi come prefigurante un   arbitrato irrituale: in tal senso militano congiuntamente sia il   rinvio (non gia’ al codice di rito civile, ma) al regolamento di   conciliazione e di arbitrato della Camera di commercio di Lucca – e   cioe’, ad un tipo di fonte che predispone notoriamente arbitrati   liberi – sia, e comunque (in mancanza, negli atti, di qualsiasi altro   elemento di convincimento desumibile dalle altre clausole   contrattuali e dalle finalita’ perseguite con il contratto di   franchising, e della fonte regolamentare di rinvio), il criterio “di   chiusura” (nella incertezza, la qualificazione deve propendere per lo   arbitrato irrituale) dianzi richiamato e piu’ volte affermato dalla   giurisprudenza di questa Corte.   Qualificata la clausola “de qua” siccome compromissoria in   arbitrato irrituale, e’ parimenti certo che la stessa sia pienamente   efficace sia in relazione alla sua struttura, sia in relazione al suo   oggetto: sotto il primo profilo, alla luce dei principi dianzi   richiamati, la clausola medesima, per sua natura, non implica deroga   alla competenza dell’autorita’ giudiziaria e, quindi, non richiede   per la produzione dei suoi effetti la specifica approvazione per   iscritto di cui agli artt. 1341 comma 2 e 1342 comma 2 cod. civ.   (cfr., in tal senso, Cass. n. 10240 del 1992 cit.), sotto il secondo   – e cioe’, che la clausola sia comprensiva anche delle controversie   aventi ad oggetto la risoluzione del contratto – e’ sufficiente   sottolineare che la ampiezza e la genericita’ della formula adottata   non consentono di escludere dall’operativita’ della stessa le   predette controversie.

Non vi erano, quindi prima dell’attuale revirement, incertezze da parte della Suprema Corte nell’affermare che la natura del solo arbitrato irrituale fosse “sostanziale” e non processuale.

In tal senso si pronuncia anche Cass. Civ. 11357/94 (in Cd. Rom. Utet. La Cassazione Civile, 1986 – 1999) la quale, sempre in parte motiva, afferma in modo ancora più esplicito, rispetto alla precedente pronuncia che “Omissis.  Ricorre normalmente l’ipotesi dell’arbitrato irrituale quando si affida agli arbitri il compito   di definire, in via negoziale, le contestazioni insorte tra le parti   in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione   amichevole, conciliativa o transattiva, ovvero con un negozio di   accertamento (Cass., Sez. Lav., 12 gennaio 1984, n. 268). Peraltro,   l’ipotesi dell’arbitrato irrituale non postula necessariamente che la   composizione abbia natura transattiva, con reciproche concessioni,   atteso che il mandato puo’ contemplare ampi poteri per la definizione   della controversia, anche con l’accertamento della totale   infondatezza pretesa di una parte (Cass., Sez. I, 22 giugno 1981 n.4069). In altre parole, con la irritualita’ dell’arbitrato non e’   incompatibile il conferimento agli arbitri del potere di definire le   controversie con il pieno riconoscimento del fondamento delle pretese   dell’una o dell’altra parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 1984, n.   4794).   Tutto cio’ premesso e’ ricordato che il lodo pronunziato a seguito   di arbitrato irrituale ha la natura di un negozio giuridico, essendo   stato posto in essere in virtu’ dei poteri conferiti con il mandato,   l’interpretazione del lodo e’ affidata al giudice del merito, il cui   apprezzamento e’ insindacabile in sede di legittimita’ se la   motivazione e’ logicamente corretta e sufficiente.” 

La Cassazione  ha espresso più volte tale orientamento, che può riassumersi nella massima più volte ribadita [salvo alcune rare pronunce discordi, che non sembrano intaccare in alcun modo l’impostazione prevalente della Suprema Corte( Ritiene, ad esempio l’arbitrato irrituale un istituto di natura giurisdizionale Cass. Civ. 5 marzo 1992 n. 2650 in Foro Pad. 1993, I, 20.)] secondo la quale “Ricorre l’arbitrato irrituale, anzichè quello rituale, quando si affida agli arbitri il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole, conciliativa o transattiva, o un negozio di accertamento, con la conseguenza che non è incompatibile con l’irritualità dell’arbitrato, che non postula necessariamente una composizione transattiva, il conferimento agli arbitri del potere di definire la controversia con il riconoscimento del fondamento delle pretese di una sola delle parti.”

La Suprema Corte (si veda tra le altre Cass. civ., 22 giugno 1981, n. 4069 in Cd. Rom Utet, Repertorio della Giurisprudenza Italiana, 1981 –2000) a partire da circa vent’anni, ha iniziato una evoluzione nel senso di, acclarata la natura sostanziale dell’istituto, evitare una presa di posizione precisa e di entrare troppo approfonditamente nella diatriba dottrinale relativa al contenuto sostanziale dell’arbitrato irrituale, affermando che “La ricorrenza di un arbitrato libero od irrituale, cioè di un mandato conferito agli arbitri per la composizione di una determinata controversia mediante atto negoziale riconducibile alla volontà dei mandati, e come tale vincolante nei confronti dei medesimi, non postula necessariamente che detta composizione abbia natura transattiva, con reciproche concessioni, atteso che quel mandato può contemplare ampi poteri per la definizione della contesa, anche con l’accertamento della totale infondatezza della pretesa di una delle parti.”

Nello stesso solco si pone Cass. Civ. 3 dicembre 1981 n. 6414 (in Cd. Rom Utet, Repertorio della Giurisprudenza Italiana, 1981 –2000)la quale ritiene generalmente, che “Si ha arbitrato rituale quando la clausola contrattuale è diretta a conferire all’arbitro o agli arbitri l’incarico di risolvere determinate o determinabili controversie, che sono insorte o possono insorgere tra loro, essenzialmente con gli stessi poteri ed obblighi e con gli stessi effetti della funzione giurisdizionale; si ha, invece, arbitrato irrituale quando al terzo o ai terzi si affida normalmente attraverso un mandato collettivo, il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione amichevole, conciliativa o transattiva, o mediante un negozio di mero accertamento, l’una e l’altro direttamente riconducibili alla volontà dei mandanti e da valere come contratto da questi concluso, dato che essi s’impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà.”

Meritano menzione alcune interessanti decisioni di merito (si vedano Trib. Torino, 15 marzo 1991, in Impresa, 1992 Trib. Milano, 6 aprile 1989 in Foro Padano, 1989, I, 352; Trib. Cagliari, 22 agosto 1986 in Riv. Giur. Sarda, 1989, 385, n. LUMINOSO;,) le quali nell’affrontare la questione della natura sostanziale dell’arbitrato irrituale, si sono spinte ad affermare, in modo in equivoco che 

“L’arbitrato irrituale è uno strumento contrattuale liberamente scelto dalle parti per risolvere stragiudizialmente una controversia, mediante mandato conferito congiuntamente a soggetto di comune fiducia di disporre una soluzione del loro dissenso in forma negoziale, di talché l’arbitro non svolge alcuna attività giurisdizionale ma agisce sul piano del diritto privato ed il rapporto tra arbitro e parti è da qualificarsi come contratto di mandato disciplinato dagli art. 1703 e segg. c. c.”

Altrettanto esplicitamente il Tribunale di Torino (si veda Trib. Torino, 24 gennaio 1990 in Giur. piemontese, 1990, 545)  afferma che, data per certa la generale natura sostanziale dell’istituto, “L’arbitrato libero, avendo contenuto negoziale, può volta per volta, a seconda di quanto risulti dalla clausola compromissoria o dal compromesso in concreto predisposti, dar luogo alla formazione da parte degli arbitri di un negozio avente natura transattiva o di un negozio di accertamento.

Salvo alcune prese di posizione decise , come quelle espressa da parte della giurisprudenza di legittimità più risalente, e poi superate, l’orientamento recente della Suprema Corte è nel senso di ritenere indifferente il contenuto sia esso transattivo (alla stregua di un contratto di transazione) o accertativo (contratto di accertamento) o conciliativo (alla stregua di una conciliazione stragiudiziale) dell’istituto arbitrato irrituale, in contrapposizione all’arbitrato rituale.

Ciò che la giurisprudenza sottolinea, in modo estremamente chiaro è la netta differenza tra arbitrato di rito ed arbitrato irrituale o libero, in relazione alla diversa natura dei due istituti.

Afferma la Suprema Corte (si veda Cass. civ., sez. I, 18 novembre 1992, n. 12346 in Cd. Rom Utet, Repertorio della Giurisprudenza Italiana, 1981 –2000), che “La determinazione della natura rituale od irrituale dell’arbitrato – che, ove costituisca oggetto di ricorso per cassazione, consente alla corte la diretta cognizione dei fatti risultanti ex actis, senza limitarsi al controllo della decisione del giudice del merito, trattandosi di questione processuale che incide sulla ammissibilità dell’impugnazione della decisione arbitrale – va compiuta con riguardo alla reale intenzione delle parti, indagando, al di là delle espressioni letterali usate, se esse abbiano inteso affidare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella propria del giudice ovvero conferire loro un mandato a definire la controversia sul piano negoziale, con una decisione riconducibile alla volontà dei mandanti, alternativa, quest’ultima, della cui concreta sussistenza può assumere apprezzabile valore indiziario la previsione generale ed assoluta della mancanza di formalità nella decisione stessa, nel quadro anche del principio per cui, nel dubbio, è da privilegiare l’interpretazione che non comporta deroga alla giurisdizione.”

Secondo la prevalente giurisprudenza  ciò che caratterizza l’arbitrato irrituale è il conferimento all’arbitro (o agli arbitri) del compito di definire in via negoziale (o meglio contrattuale) le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti stesse in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse.

L’arbitrato rituale, è invece caratterizzato dal fatto che le parti “intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella propria del giudice “ (Si veda per tutte Cass. civ., sez. III, 4 ottobre 1994, n. 8075 in Cd. Rom Utet, Repertorio della Giurisprudenza Italiana, 1981 –2000).

IV. La dottrina.

Si consenta, in questa sede di passare brevemente in rassegna, le principali opinioni della dottrina, sul tema, non senza sottolineare che, proprio in ordine alle questioni trattate, la sentenza de qua è stata oggetto di annotazione da parte di FAZZALARI (in Riv. Arb. 2000,, 4, 699 e seguenti, Una svolta attesa in ordine alla “natura” dell’arbitrato).

Già SCHIZZEROTTO (SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1982), prima della riforma affermava, sulla questione terminologica che “in verità il nome di arbitrato dovrebbe essere riservato esclusivamente all’istituto regolato dagli artt. 806 e ss. C.p.c.. Ciò non tanto perché esso solo (ndr 1 ‘arbitrato rituale) è legislativamente regolato, quanto perché in esso il giudice “arbitro -pretore ” esercita la funzione giurisdizionale e decide con effetti di sentenza diversamente da tutte le altre figure similari omissis …”

Altri autori, invece pur utilizzando sempre il termine arbitrato, lo associano all’aggettivo libero. RUBINO SAMMARTANO (RUBINO SAMMARTANO, IL diritto dell’arbitrato interno, Cedam, Padova, 1994, pag. 41 e ss,) preferisce addirittura trattare dell’arbitrato irrituale o improprio con la parafrasi “mandato congiunto a transigere” proprio al fine di evitare confusione tra il “vero” arbitrato (l’arbitrato rituale). Afferma l’autore che “Ed a questo punto per evitare confusioni, appare preferibile non denominarlo arbitrato irrituale (o improprio o libero) ma semplicemente mandato congiunto a transigere.”

BIAMONTI (BIAMONTI, voce Arbitrato, in Enc. Dir., Milano, 1958. pag. 934.) affermava che “Accanto all’arbitrato rituale, e sostanzialmente distinti da questo, hanno trovato larga applicazione nella vita economica alcuni istituti che presentano sotto certi aspetti una funzione più o meno formalmente affine a quella dell’arbitrato, la quale si ripercuote anche sulla loro denominazione corrente, basata sul concetto comune di arbiter e di arbitrium.”

La dottrina più recente pare concorde, salvo alcune voci di dissenso sulla natura contrattuale, non tanto o solo della clausola compromissoria o del compromesso per arbitrato irrituale, ma altresì della decisione finale nella quale termina e confluisce l’arbitrato irrituale.

Concorda, in generale, sulla natura sostanziale dell’istituto RUBINO SAMMARTANO (RUBINO SAMMARTANO, IL diritto dell’arbitrato interno, Cedam, Padova, 1994, pag. 41 e ss.), il quale afferma che “mentre la convenzione, attraverso la quale le parti decidono di dare vita ad un arbitrato processuale, può esser qualificata come un contratto di diritto privato avente effetti processuali, si ha invece arbitrato improprio quando le parti conferiscono a terzi il compito di comporre negozialmente la vertenza senza far ricorso a istituti processuali. ”

Secondo l’autore quindi, l’arbitrato rituale e quello irrituale (o improprio) avrebbero in comune, non tanto l’aspetto, assai generale, ma per nulla caratterizzante, dell’essere finalizzati a risolvere una controversia, ma quanto il fatto che entrambi trarrebbero origine da un “contratto di diritto privato”. L’arbitrato improprio si concreta quindi, secondo tale orientamento, in un mandato congiunto di più parti a uno o a più terzi di comporre la controversia, costituendo un contratto che deve considerarsi come una diretta manifestazione della volontà delle parti stesse.

Sulla generale natura sostanziale dell’istituto SCHIZZEROTTO (SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1982) afferma che all’arbitrato improprio deve essere riferita una situazione diversa da quella propria dell’arbitrato processuale e cioè una situazione in cui le parti non chiedono agli arbitri una decisione, cioè la risoluzione di una controversia, ma di essere condotte alla conclusione in concreto della rappacificazione tra esse intervenuta.

Assai esplicito, in tal senso è il VECCHIONE (VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971, pag. 79 e ss) , il quale nel tracciare la linea distintiva tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale afferma a chiare lettere che l’arbitrato libero (o irrituale) deve ritenersi un istituto di diritto privato .

Ma accanto a tali autori, in dottrina pare prevalere l’impostazione del FAZZALARI (si veda in ordine alla teoria dell’autore FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir Proc. 1968, 459.) il quale nel tentativo di proporre una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, che comprenda sia l’arbitrato rituale che quello irrituale, ha affermato che quando si parla di arbitrato sia esso rituale o irrituale si parla di unico genere, e cioè quello dell’arbitrato , genere che è caratterizzato dal fatto che si tratta di

“Strumenti di soluzione di una lite per mezzo di un giudizio posto al termine di un processo.”

Ma la tesi di Fazzalari, che riprende poi l’impostazione risalente del Satta  pur andando in diversa direzione, pare pur essa concludersi nel senso di ritenere prevalente la natura sostanziale, quanto meno negli effetti, del lodo irrituale.

In tale ottica BERNARDINI (BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Milano, pag. 16 e ss), afferma che ciò che pare accomunare arbitrato rituale e irrituale è l’esistenza di una controversia e l’intento delle parti di affidarne la decisione a un soggetto privato, al termine di un processo sviluppatosi nel contraddittorio della parti e che quindi ciò che differenzia i due istituti è l’efficacia della decisione dell’arbitrato, che nell’irrituale è solo contrattuale e in suscettibile di acquisire efficacia esecutiva grazie all’intervento del giudice statale, al contrario del lodo dell’arbitro rituale.

PUNZI (PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, pag. 77 e ss), pur ritenendo essersi di fatto estinto l’arbitrato irrituale, a seguito della riforma del 1994, ritiene che prima di tale data sussistesse comunque una chiara identità di funzione tra arbitrato rituale ed arbitrato libero (o irrituale) in quanto l’attività svolta dagli arbitri (in rituale o irrituale) è sempre quella di “Giudicare e decidere la controversia, individuando la soluzione giusta secondo il criterio di giudizio – jure stricto ovvero ex bono et aequo- voluto dalle parti, con una decisione che le parti, sottoscrivendo il patto compromissorio, si sono impegnate ad eseguire.”

Le tesi facenti capo al FAZZALARI, hanno avuto seguito in dottrina. Si richiamano a tale teoria Punzi, L ‘arbitrato nel diritto italiano, in Riv. dir. comm. 1973, 343, 346; Collura, Contributo allo studio dell’arbitrato libero in Italia, Milano 1978, 204-208; Carpi, Il procedimento nel/’arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1991, 38955.; Cecchella, Arbitrato libero e processo (contributo ad una nozione unitaria dell’arbitrato italiano), in Riv. dir. proc. 1987, 881; Tommaseo, Arbitrato libero e forme processuali, in Riv. arbitrato 1991, 743 55.; Bin, Il compromesso e la clausola compromissoria in arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ..1991, 37355.

Esse sono state peraltro oggetto di vivaci critiche e discussioni. BOVE (BOVE, Note in tema di arbitrato libero, in Riv. Dir. Proc., 1999, 687 e ss.), leggendo in chiave critica la teoria cd. unitaria, afferma a chiare lettere che “Non si può spiegare l’arbitrato libero facendo riferimento al negozio giuridico e poi vedere in esso un giudizio allo stesso modo in cui questo è posto in una sentenza.”

Effettivamente le contraddizioni esistenti nell’ambito della teoria cd. unitaria, sono vieppiù rilevanti, tenuto conto dell’attuale quadro normativo, nel quale il lodo rituale spiega la sua efficacia (art. 826 C.p.c.) anche in difetto di omologazione. Indipendentemente dalle varie posizioni della dottrina, pare doversi aderire in linea di principio alla tesi del BOVE (ult. Op. cit. pag. 689), il quale nel pregevole tentativo di ricondurre nei giusti binari l’istituto dell’arbitrato irrituale o libero ha affermato, che l’arbitrato irrituale “omissis…rappresenta uno strumento negoziale, con tutte le caratteristiche dello strumento negoziale. E tra queste non ci sono né il processo né il giudizio, almeno nel modo in cui questi termini sono usati nell’ambito dei fenomeni giurisdizionali.”

Nonostante le ampie disquisizioni della dottrina deve rilevarsi che la questione relativa alla natura dell’arbitrato irrituale, deve ritenersi superata, sulla scorta dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza richiamata che costituisce oramai una costante, affermando  a chiare lettere che l’arbitrato irrituale, indipendentemente dalla individuazione del concreto contenuto sostanziale, costituisce comunque un istituto di natura negoziale.

BENATTI (BENATTI, L’arbitrato irrituale: la fattispecie, in L’arbitrato profili sostanziali, a cura di G.Alpa, Utet, 2000, pag. 247 e ss.), dall’analisi della natura sostanziale dell’istituto, porta alle estreme conseguenze il postulato e correttamente afferma che la disponibilità della fattispecie da parte dei soggetti non è altro, allora, che una applicazione del principio della libertà contrattuale ed un caso sintomatico è proprio quello dell’arbitrato irrituale.

La libertà contrattuale ed il contenuto sostanziale dell’arbitrato irrituale determinano quindi che sussiste un implicito riconoscimento da parte del legislatore del potere dei privati di regolare negozialmente la soluzione delle controversie e quindi sussiste un riconoscimento conseguente che in quel potere è ricompreso e cioè quello di forgiare la fattispecie.

RUBINO SAMMARTANO, (ult. Op. cit., pag. 43) entrando nel merito della qualificazione sostanziale dell’istituto, definisce l’arbitrato irrituale propriamente come un mandato congiunto a transigere. Afferma l’autore, che

“In altri termini nel nostro ordinamento sembra sussistere un impedimento sistematico a consentire due accertamenti, l’uno da parte dell’arbitro rituale e l’altro da parte dell’arbitro irrituale e quindi a consentire oltre all’accertamento da parte del vero arbitro acnhe un mandato a compiere un accertamento non giudiziale ma negoziale, per giunta di diritto. Il nostro ordinamento ha infatti disegnato un solo tipo di arbitrato mentre le altre forme di componimento appartengono ( e su questo vi è una sostanziale unanimità) al diritto sostanziale.” Non sembra quindi esservi spazio oltre che per il mandato a transigere anche per un mandato ad accertare un diritto, per giunta secondo lo stretto diritto.

Di contrario avviso è CECCHELLA (CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 1991, 47 e ss) il quale afferma che nello stesso momento in cui le parti stipulano il patto compromissorio irrituale

“Non convertono le loro pretese contrastanti nei panni dimessi di una volontà conciliativa in bianco lasciata al riempimento di terzi mandatari, muniti non del potere di accertare le situazioni controverse, bensì di poteri lato sensu dispositivi ovvero modificativi dell’assetto giuridico degli interessi con rilevanza giuridica coinvolti nella controversia.”

Secondo tale autore, pertanto non esisterebbe alcuna volontà conciliativa o transattivi, ma solamente la volontà di veder affermato il proprio diritto. E da tale considerazione discende la critica sia alla teoria del mandato a transigere che dell’arbitraggio o negozio di accertamento.

L’impostazione del CECCHELLA risulta peraltro conforme alla tesi cd. unitaria espressa dal FAZZALARI  il quale proporrebbe una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, che comprenda sia l’arbitrato rituale che quello irrituale, affermando che quando si parla di arbitrato sia esso rituale o irrituale si parla di unico genere, e cioè quello dell’arbitrato , genere che è caratterizzato dal fatto che ci si trova di fronte a strumenti di soluzione di una lite per mezzo di un giudizio, comunque posto al termine di un processo.

Senza riprendere la questione già trattata in precedenza, in ordine alla qualificazione contrattuale e sostanziale dell’arbitrato irrituale, rispetto alla natura processuale dell’arbitrato rituale, occorre rilevare che anche in ordine a tale questione la dottrina manifesta opinioni divergenti.

PUNZI (PUNZI, Disegno ult. Op. cit. pag. 95 e ss.) afferma “Oggi pertanto, essendosi disancorate dal deposito la vita del lodo, la sua validità e rilevanza nel mondo dei rapporti sostanziali, ed infine il suo regime di impugnazione, e rilevando il decreto del giudice dello Stato esclusivamente per la dichiarazione di esecutività, la contrapposizione fra arbitrato rituale e arbitrato irritale, e con essa il dilemma contrattualità- giurisdizionalità dell’arbitrato, non ha più ragion d’essere”.

In senso conforme si veda MONTELEONE, Il nuovo assetto dell’arbitrato, in Corr. Giur. 1994, 1048 e ss.

Per evitare errori interpretativi, prosegue l’autore, prima della riforma era necessario che le parti avessero espresso la loro opzione fondamentale, manifestando chiaramente la loro volontà e precisando se gli arbitri dovessero o meno osservare, nello svolgimento del procedimento e nella formazione e nella pronuncia del lodo, le norme previste dagli art. 806 e segg..

Ritiene infatti PUNZI (PUNZI, Disegno ult. Op. cit. pag. 96 e ss.) che il criterio interpretativo fondamentale per la distinzione dei due istituti, nel solco della sua adesione alla tesi cd. unitaria, derivasse dall’obbligo o dall’esonero espresso, consacrato nella clausola compromissoria, di osservare la normativa di cui all’art. 806 e ss. Nel caso in cui nella clausola compromissoria vi fosse manifestato dalle parti l’esonero dalle formalità procedurali prescritte nel codice di rito, ci si sarebbe trovati di fronte ad un arbitrato irrituale.

D’altronde, prosegue secondo tale impostazione “.. il dilemma contrattualità-giurisdizionalità dell’arbitrato non ha più ragion d’essere: si ha, come si è già detto, un unico arbitrato, disciplinato dalla normativa contenuta nel codice di procedura civile, ma sicuramente appartenente all’area del diritto privato…”

La tesi del PUNZI (PUNZI, Disegno ult. Op. cit. pag. 95 e ss.), peraltro coerente rispetto alle premesse poste dall’autore, risulta ampiamente contraddetta dal dato fattuale. La permanenza anzi la maggior proliferazione dell’arbitrato irrituale trova fondamento infatti in una giurisprudenza in materia, assai copiosa, e dalla quale pare ricavarsi che l’arbitrato irrituale non abbia per nulla risentito della riforma attuata nel 1994.

Infine VERDE (VERDE in AA.VV, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 1997, 13 e ss.; in senso conforme si veda MIRABELLI GIACOBBE, Diritto dell’arbitrato, Nozioni Generali, Napoli, 1994, pag. 8 e ss.)ritiene che se di distinzione può parlarsi ancora tra arbitrato rituale e irrituale, essa trova il suo fondamento nel solo fatto che nell’arbitrato irrituale le parti abbiano escluso a priori una omologazione del lodo.

Massimo Curti