Sulla natura dell’arbitrato irrituale

L’arbitrato irrituale e i cd. modelli sostanziali di risoluzione delle controversie nel sistema italiano.

Sommario: 1 La natura sostanziale dell’arbitrato irrituale. 2. La qualificazione dell’istituto sul piano sostanziale. 3 Qualificazione ed indici rivelatori della sussistenza dell’arbitrato irrituale 4. Arbitrato irrituale ed arbitrato rituale.

1. Ancora aperta e di interesse attuale, visto il succedersi di pronunce della Suprema Corte sul tema, appare la dibattuta questione relativa alla “natura” dell’arbitrato irrituale nel sistema italiano.

D’altronde la vivacità del dibattito intorno a tale questione è resa evidente dal fatto che sono stati molteplici gli interventi della dottrina sul tema[1] ed ancora oggi, nonostante la giurisprudenza di legittimità abbia assunto oramai una posizione estremamente chiara, considerando dato acquisito quello della “natura sostanziale” dell’arbitrato irrituale, vengono da vari autori espresse posizioni assai divergenti.

Il sistema italiano, conosce infatti, accanto all’arbitrato, cd. normale o di rito, un diverso tipo o modello di arbitrato, del tutto differente rispetto alla stessa nozione di arbitrato, universalmente conosciuta anche in sede internazionale.

Come dicevamo, per quanto la giurisprudenza di legittimità non sia entrata specificatamente nel merito della questione, l’orientamento prevalente e costante della Suprema Corte[2] è nel senso di ritenere che ciò che caratterizzerebbe l’arbitrato irrituale sarebbe il conferimento all’arbitro (o agli arbitri) del compito di definire in via negoziale (o meglio contrattuale) le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti stesse in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse.

Tale composizione della controversia risulterebbe vincolante grazie all’espressa obbligazione che le parti si assumono, nell’ambito del patto compromissorio, di ritenere che la decisione degli arbitri costituisca espressione diretta della loro volontà.

La Cassazione[3] ha espresso più volte tale orientamento, che può riassumersi nella massima secondo la quale Ricorre l’arbitrato irrituale, anzichè quello rituale, quando si affida agli arbitri il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole, conciliativa o transattiva, o un negozio di accertamento, con la conseguenza che non è incompatibile con l’irritualità dell’arbitrato, che non postula necessariamente una composizione transattiva, il conferimento agli arbitri del potere di definire la controversia con il riconoscimento del fondamento delle pretese di una sola delle parti.”

Il percorso interpretativo seguito dalla Suprema Corte, nasce quale completamento di un iter giurisprudenziale e di una riflessione dottrinale, che sin dall’esordio dell’arbitrato irrituale o libero sulla scena processuale Italiana , ha costituito oggetto di un dibattito aspro, sia in ordine alla natura che in ordine al generale inquadramento dell’istituto , sia altresì in ordine alla denominazione stessa dell’istituto.

Molteplici sono le pronunce della Suprema Corte che affrontano, direttamente o indirettamente la questione della “natura” in senso lato dell’istituto dell’arbitrato irrituale ed in tutte si legge costantemente[4] che l’arbitrato irrituale sarebbe caratterizzato dal fatto che al terzo od ai terzi si affida il mandato di definire in via negoziale le contestazioni insorte tra le parti mediante una composizione o definizione “amichevole”, riconducibile alla volontà delle parti alla stregua di un contratto da costoro concluso.

La questione della natura dell’arbitrato irrituale è sviluppata nella sentenza Cass. Civ. 24 luglio n. 6928, nella quale si legge “che ricorre la prima ipotesi (arbitrato rituale), allorquando le parti   abbiano conferito ad uno o piu’ terzi lo incarico di risolvere   determiniate o determinabili controversie, che siano insorte o   possano insorgere tra loro, essenzialmente con gli stessi poteri ed   obblighi e con gli stessi effetti propri della funzione   giurisdizionale, mentre ricorre la seconda (arbitrato irrituale),   allorche’ al terzo od ai terzi si affida il compito di definire in   via negoziale le contestazioni insorte tra le parti in ordine a   determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole,   conciliativa o transattiva o con un negozio di accertamento, l’una e   l’altro direttamente riconducibili alla volonta’ delle parti e da   valere come contratto da costoro concluso”.

Come si può vedere la Suprema Corte non mostra alcuna incertezza nell’affermare che la natura dell’istituto “arbitrato irrituale” sia “sostanziale”, anche se differenti sono invece le sfumature e le posizioni assunte, quando si tratta poi di scendere nel merito e di inquadrare l’istituto in un determinato tipo contrattuale.

In tal senso si pronuncia anche Cass. Civ. 11357/94 la quale afferma in modo ancora più esplicito, rispetto alla precedente pronuncia che “Ricorre normalmente l’ipotesi dell’arbitrato irrituale quando si affida agli arbitri il compito   di definire, in via negoziale, le contestazioni insorte tra le parti   in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione   amichevole, conciliativa o transattiva, ovvero con un negozio di   accertamento (Cass., Sez. Lav., 12 gennaio 1984, n. 268). Peraltro,   l’ipotesi dell’arbitrato irrituale non postula necessariamente che la   composizione abbia natura transattiva, con reciproche concessioni,   atteso che il mandato puo’ contemplare ampi poteri per la definizione   della controversia, anche con l’accertamento della totale   infondatezza pretesa di una parte (Cass., Sez. I, 22 giugno 1981 n.   4069). In altre parole, con la irritualita’ dell’arbitrato non e’   incompatibile il conferimento agli arbitri del potere di definire le   controversie con il pieno riconoscimento del fondamento delle pretese   dell’una o dell’altra parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 1984, n.   4794)”

La dottrina più recente pare concorde, salvo alcune voci di dissenso, sull’orientamento assunto dalla Cassazione e quindi sulla natura contrattuale, non tanto o solo della clausola compromissoria o del compromesso per arbitrato irrituale, ma altresì della decisione finale nella quale termina e confluisce l’arbitrato irrituale.

Concorda, in generale, sulla natura sostanziale dell’istituto RUBINO SAMMARTANO[5], il quale afferma che “mentre la convenzione, attraverso la quale le parti decidono di dare vita ad un arbitrato processuale, può esser qualificata come un contratto di diritto privato avente effetti processuali, si ha invece arbitrato improprio quando le parti conferiscono a terzi il compito di comporre negozialmente la vertenza senza far ricorso a istituti processuali. ”

Secondo l’autore quindi, l’arbitrato rituale e quello irrituale (o improprio) avrebbero pertanto in comune, non tanto l’aspetto, assai generale, ma per nulla caratterizzante, dell’essere finalizzati a risolvere una controversia, ma quanto il fatto che entrambi trarrebbero origine da un “contratto di diritto privato”. L’arbitrato improprio si concreta quindi, secondo tale orientamento, in un mandato congiunto di più parti a uno o a più terzi di comporre la controversia, costituendo un contratto che deve considerarsi come una diretta manifestazione della volontà delle parti stesse.

Sulla generale natura sostanziale dell’istituto SCHIZZEROTTO[6] afferma che all’arbitrato improprio deve essere riferita una situazione diversa da quella propria dell’arbitrato processuale e cioè una situazione in cui le parti non chiedono agli arbitri una decisione, cioè la risoluzione di una controversia, ma di essere condotte alla conclusione in concreto della rappacificazione tra esse intervenuta.

Assai esplicito, in tal senso è il VECCHIONE, il quale nel tracciare la linea distintiva tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale afferma a chiare lettere che l’arbitrato libero (o irrituale) deve ritenersi un istituto di diritto privato[7].

Ma accanto a tali autori, in dottrina pare prevalere l’impostazione del FAZZALARI[8] il quale nel tentativo di proporre una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, che comprenda sia l’arbitrato rituale che quello irrituale, ha affermato che quando si parla di arbitrato sia esso rituale o irrituale si parla di unico genere, e cioè quello dell’arbitrato[9], genere che è caratterizzato dal fatto che si tratta di “Strumenti di soluzione di una lite per mezzo di un giudizio posto al termine di un processo.”

Ma la tesi di Fazzalari, che riprende poi l’impostazione risalente del Satta[10] pur andando in diversa direzione, pare pur essa concludersi nel senso di ritenere anche l’arbitrato rituale un fenomeno giusprivatistico e quindi a ritenere prevalente la natura sostanziale, quanto meno negli effetti, del lodo irrituale.

In tale ottica BERNARDINI[11], afferma che ciò che pare accomunare arbitrato rituale e irrituale è l’esistenza di una controversia e l’intento delle parti di affidarne la decisione a un soggetto privato, al termine di un processo sviluppatosi nel contraddittorio della parti e che quindi ciò che differenzia i due istituti è l’efficacia della decisione dell’arbitrato, che nell’irrituale è solo contrattuale e in suscettibile di acquisire efficacia esecutiva grazie all’intervento del giudice statale, al contrario del lodo dell’arbitro rituale.

PUNZI[12], pur ritenendo essersi di fatto estinto l’arbitrato irrituale, a seguito della riforma del 1994, ritiene che prima di tale data sussistesse comunque una chiara identità di funzione tra arbitrato rituale ed arbitrato libero (o irrituale) in quanto l’attività svolta dagli arbitri (in rituale o irrituale) è sempre quella di giudicare e decidere la controversia, individuando la soluzione giusta secondo il criterio di giudizio – jure stricto ovvero ex bono et aequo- voluto dalle parti, con una decisione che le parti, sottoscrivendo il patto compromissorio, si sono impegnate ad eseguire.

Le tesi facenti capo al FAZZALARI, sono state oggetto di vivaci critiche e discussioni. BOVE[13], leggendo in chiave critica la teoria cd. unitaria, afferma a chiare lettere che “Non si può spiegare l’arbitrato libero facendo riferimento al negozio giuridico e poi vedere in esso un giudizio allo stesso modo in cui questo è posto in una sentenza.”

Effettivamente le contraddizioni esistenti nell’ambito della teoria cd. unitaria, sono vieppiù rilevanti, tenuto conto dell’attuale quadro normativo, nel quale il lodo rituale spiega la sua efficacia (art. 826 C.p.c.) anche in difetto di omologazione. Indipendentemente dalle varie posizioni della dottrina, pare doversi aderire in linea di principio alla tesi del BOVE, il quale nel pregevole tentativo di ricondurre nei giusti binari l’istituto dell’arbitrato irrituale o libero ha affermato, che l’arbitrato irrituale rappresenta uno strumento negoziale, con tutte le caratteristiche dello strumento negoziale. E tra queste non ci sono né il processo né il giudizio, almeno nel modo in cui questi termini sono usati nell’ambito dei fenomeni giurisdizionali.

Nonostante le ampie disquisizioni della dottrina deve rilevarsi che la questione relativa alla natura dell’arbitrato irrituale, deve ritenersi superata sulla scorta dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza richiamata che costituisce oramai una costante, nella parte in cui ha affermato[14] a chiare lettere che l’arbitrato irrituale, indipendentemente dalla individuazione del concreto contenuto sostanziale, costituisce comunque un istituto di natura negoziale.

Sulla natura negoziale dell’istituto non si può pertanto più dissentire o esprime consensi dubitativi[15].

Anche se ancora aperta pare la questione non tanto relativamente alla natura processuale o sostanziale dell’istituto, ma quanto alla esatta individuazione del contenuto e quindi della qualificazione sostanziale dello stesso, la prassi ed il dato giurisprudenziale estremamente chiaro, hanno permesso la ricostruzione ed una altrettanto chiara distinzione dell’arbitrato irrituale dall’arbitrato rituale, considerando ed argomentando sempre e costantemente dalla natura dell’uno rispetto all’altro.

Nell’arbitrato irrituale si affida agli arbitri il compito di definire in via negoziale e sostanziale le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, utilizzando lo strumento contrattuale.

Il problema che si pone e ci si deve porre quindi non è tanto o più quello della legittimazione o meno del cd. arbitrato irrituale, ma quello della delimitazione ed esatta circoscrizione dei suoi limiti e contenuti.

Ora, se per arbitrato irrituale intendiamo un sistema di risoluzione di una controversia affidato a privati, i quali esercitano una potestà del tutto simile alla potestà giurisdizionale, ma svincolato dalle necessarie garanzie che sono state approntate dall’ordinamento per l’arbitrato rituale, è evidente che tale sistema non sia meritevole di tutela e come tale non abbia diritto di ingresso nel nostro ordinamento.

Che senso avrebbe, infatti, stabilire nel codice di rito delle regole procedurali ben delineate e delle norme di ordine pubblico e quindi inderogabili, per l’arbitrato inteso come coacervo di regole procedurali finalizzate alla risoluzione di una controversia, se può coesistere un identico sistema di risoluzione della controversia, senza vincoli di alcun genere?

Delle due l’una: o l’arbitrato e cioè qualsivoglia sistema di risoluzione delle controversie alternativa alla giurisdizione è ritenuto dal ns. legislatore libero da vincoli di vario genere ed è affidato integralmente alla scelta dei “privati” o altrimenti le regole dettate nel sistema (e quindi le regole del codice di procedura) non possono che valere per ogni genere di arbitrato.

Naturalmente a tale impostazione, alla quale parrebbero aderire quegli autori che si riportano al FAZZALARI[16] non pare, per i motivi già sopra discussi, accoglibile.

Come ritenetuo da BOVE[17], è ben vero che l’arbitrato, ed ogni forma di arbitrato costituisce sempre un fenomeno giusprivatistico, espressione non di un pubblico potere, ma di un potere privato.

Ma è altrettanto vero che sono le modalità di esercizio ed il contenuto di ciascuna forma di arbitrato che appaiono, alla stregua della ricostruzione giurisprudenziale sopra richiamata, assai diverse.

BENATTI[18], dall’analisi della natura sostanziale dell’istituto, porta alle estreme conseguenze il postulato e correttamente afferma che la disponibilità della fattispecie da parte dei soggetti non è altro, allora, che una applicazione del principio della libertà contrattuale ed un caso sintomatico è proprio quello dell’arbitrato irrituale.

La libertà contrattuale ed il contenuto sostanziale dell’istituto determinano, secondo l’autore quindi, un implicito riconoscimento da parte del legislatore del potere dei privati di regolare negozialmente la soluzione delle controversie e quindi sussiste un riconoscimento conseguente che in quel potere è ricompresso anche quello di forgiare la fattispecie.

Sulla scorta del dato giurisprudenziale, e di quanto affermato in dottrina debbono svolgersi alcune considerazioni.

Nessun dubbio può più sussistere sul fatto che l’atto di determinazione del o degli arbitri –mandatari liberi o irrituali abbia natura sostanziale e precisamente natura “contrattuale”.

Tale affermazione nasce da un rilievo sistematico che si impone a seguito della riforma dell’arbitrato attuata sin dal 1994, la quale ha riconosciuto e legittimato nell’arbitrato rituale una vera e propria “giurisdizione dei privati”[19].

La legittimazione dell’arbitrato rituale, come rilevato da alcuni autori[20] avrebbe potuto certamente determinare la morte dell’irrituale, se ed in quanto tale istituto non avesse avuto una forza propria, o meglio non fosse stato in grado di mantenere una rilevante differenziazione rispetto all’arbitrato di rito, ritenuto che, a prima vista, pareva evidente, seguendo la tesi cd. unitaria, che a seguito della riforma poche o meglio pochissime differenze sarebbero rimaste tra i due istituti, determinandosi così una forma di “assorbimento” ed uniformazione rivolta verso l’arbitrato di rito.

Come abbiamo visto, invece, il dato giurisprudenziale conferma che tale uniformazione, che avrebbe portato alla confusione degli istituti, o meglio alla sparizione dell’arbitrato irrituale ad oggi non si è ancora verificata.

Vero è che ancora oggi, specialmente da parte di alcuni giudici di merito, vengo espressi alcuni dubbi sulla differenza tra gli istituti e soprattutto sulla natura propria dell’arbitrato irrituale o improprio.

Il dubbio che si pone riguarda la evidente contraddittorietà che si riscontra nella configurazione giurisprudenziale attuale data all’istituto, e cioè: a)la richiesta e presupposta neutralità degli arbitri mandatari, nell’arbitrato irrituale rispetto alla controversia (caratterizzerebbe certamente meglio la natura sostanziale del rapporto il fatto che il mandatario non fosse in posizione di neutralità, ma fosse, anzi, come è più proprio del rapporto sostanziale in posizione di parziarietà, dovendo perseguire gli interessi del proprio mandante; sarebbe quindi, in tale prospettiva proprio la posizione di neutralità, caratteristica peculiare del giudice o dell’arbitro in senso proprio, che dovrebbe portare ad escludere la natura sostanziale del rapporto) ; b)il numero dispari degli arbitri mandatari (la natura sostanziale e la generica applicabilità delle norme in tema di mandato, non impongono un numero dispari di mandatari, ma anzi, se l’oggetto del mandato conferito è la stipula di un negozio sostanziale, che possa eliminare la controversia insorta (sia esso una transazione o un negozio di accertamento o latro tipo contrattuale), che produca gli effetti direttamente nei confronti dei mandanti vincolando essi stessi al negozio, tipico è, nei negozi sostanziali, che ciascuna parte nomini un suo mandatario, essendo ipotesi assai rara la nomina di mandatari congiunti); c)la trasfusione di regole processuali all’istituto dell’arbitrato irrituale, pur venendo lo stesso definito di “natura sostanziale”; d) l’esistenza di una clausola definita compromissoria, per indicare la devoluzione della controversia ai mandatari – arbitri irrituali pur non potendosi definire, in senso proprio e cioè in ossequio al preciso dettato codicistico, tale clausola come “compromissoria”.

Ma tale impostazione[21], che nell’ambito sistematico delineato, pare la più corretta, non viene seguita dalla giurisprudenza.

Attenendosi al dato giurisprudenziale, deve rilevarsi che la Suprema Corte ed anche molti giudici del merito, ritengono di poter interpretare la clausola inserita nel contratto, quale clausola compromissoria per arbitrato rituale, qualora nella stessa vengano utilizzate dalle parti espressioni proprie del procedimento giurisdizionale quali il deferimento agli arbitri del compito di giudicare le controversie, e/o locuzioni quali controversie, giudizio, e pur ritenendo caratterizzato l’arbitrato irrituale dalla sua natura sostanziale, non portano, nel senso sopra indicato, tale affermazione alle inevitabili conseguenze.

E’ infatti costante l’affermazione della giurisprudenza [22] secondo la quale “In tema di arbitrato irrituale, non possono essere ritenuti elementi decisivi alla legittima configurabilità dell’istituto (onde escludere la sussistenza della diversa figura dell’arbitrato rituale) nè il conferimento agli arbitri della potestà di decidere secondo equità, ovvero in veste di amichevoli compositori (non essendo tale specificazione del criterio di definizione della controversia incompatibile con l’arbitrato rituale, nel quale ben possono gli arbitri essere investiti dell’esercizio di poteri equitativi), nè la preventiva attribuzione alla pronuncia arbitrale del carattere della inappellabilità (carattere ipotizzabile anche con riferimento al lodo da arbitrato rituale, ex art. 829 c.p.c., con il solo effetto della esclusione della deducibilità dell’error in iudicando), nè la previsione di esonero degli arbitri da “formalità di procedura” (previsione non incompatibile con l’istituto dell’arbitrato rituale, giusta disposto dell’art. 816 c.p.c.), dovendosi, per converso, valorizzare, ai fini di una corretta lettura della volontà delle parti compromesse in arbitri, espressioni terminologiche (quali quelle ricorrenti nel caso di specie) congruenti con l’attività del “giudicare” e con il risultato di un “giudizio” in ordine ad una “controversia” (specie se concernente questioni schiettamente giuridiche e non tecniche), compatibili, cioè, con la previsione di un arbitrato rituale.

E’ quindi evidente che l’indagine nel merito della clausola, secondo tale orientamento, viene effettuato vagliando l’effettiva natura “sostanziale” della clausola per arbitrato irrituale, anche se poi, come si rilevava, nei fatti le differenze rilevate dalla Suprema Corte tra i due istituti, non paiono decisive.

In molti casi pare avvalorato il dubbio che la Suprema Corte legittimi una terza forma di arbitrato, che pare non ammissibile nel ns. ordinamento, e cioè un arbitrato a metà tra il rituale e l’irrituale, nel senso sopra delineato.

Ma se si da per certo, e su questo non paiono esserci dissensi anche in dottrina, che sia la natura sostanziale del risultato finale, rispetto all’arbitrato rituale, è sul piano ermeneutico che la giurisprudenza deve operare al fine di distinguere correttamente i due istituti.

E gli indici rivelatori di una scelta delle parti verso un mandato volto a definire in via sostanziale la res litigiosa, non possono che rinvenirsi nell’effettiva natura sostanziale dell’oggetto del mandato conferito, che deve essere vagliata dall’interprete con un evidentemente maggior rigore.

Entrando brevemente nel merito, essendo la trattazione del contenuto e della qualificazione dell’istituto oggetto del prossimo paragrafo, non si può non rilevare, in estrema sintesi che, come sopra specificato, la caratterizzazione dell’istituto definito “arbitrato” irrituale, debba necessariamente rinvenirsi in una serie di differenziazioni “forti” e pregnanti, rispetto all’arbitrato di rito.

Contrariamente a quanto sino ad oggi ritenuto dalla giurisprudenza, deve ritenersi che indice rivelatore della natura sostanziale del rapporto sia che i mandatari, ai quali le parti si sono rivolte per risolvere la controversia mediante la stipula di un negozio di natura sostanziale, non siano in posizione di neutralità, ma siano, come è proprio del rapporto sostanziale in posizione di parziarietà, dovendo, ciascuno perseguire gli interessi del proprio mandante.

Dovrà quindi ritenersi indice rivelatore di un rapporto processuale e quindi di una richiesta di arbitrato rituale delle parti (anche se eventualmente di equità, o non appellabile) la scelta di un numero dispari dei mandatari, la imposizione di un obbligo di neutralità rispetto alle parti stesse, l’applicazione di regole processuali proprie dell’arbitrato rituale, quale la previsione dello scambio di memorie, di termini per il deposito di documenti e simili.

Risulta evidente che, in difetto di imposizione di limiti certi a tale istituto, l’attuale configurazione dell’istituto dell’arbitrato irrituale ricavantesi dalle statuizioni della giurisprudenza, per quanto sia pregevole il tentativo di parte della giurisprudenza di estendere regole e principi propri dell’arbitrato rituale, porta ed ha portato, nei fatti, a veder introdotto nel nostro ordinamento un istituto, nei fatti, del tutto identico all’arbitrato regolato dal codice di rito, ma svincolato da ogni regola e principio, e quindi, come definito da parte della dottrina, libero in tutti i sensi.

Il chè non solo non pare corretto da un punto di vista generale (l’interesse ad eseguire il lodo rituale o irrituale è identico per le parti, in caso di mancata spontanea adesione della parte soccombente, e cioè sia che si tratti di arbitrato rituale che di irrituale) ma determina non pochi problemi di coordinamento con altre disposizioni dell’ordinamento.

Deve infatti rilevarsi che proprio grazie a tale attuale impostazione ed alla mancata presa di posizione, in modo deciso, della Suprema Corte, sono state poste nel nulla gran parte delle cautele imposte dalla Comunità Europea, ad esempio mediante la direttiva a tutela dei consumatori , i quali si trovano, ancora oggi, nell’impossibilità di agire in giudizio qualora, per ventura, in un contratto tipo sia stata inserita una clausola, che, secondo i canoni ermeneutici in oggi applicati, viene definita per “arbitrato irrituale”.

Orbene, data la natura contrattuale e sostanziale di una tale clausola, in linea di principio il consumatore si trova, nel sistema italiano così come delineato: a)vincolato ad una tale clausola, anche senza che la stessa possa dallo stesso essere stata sottoscritta (la natura sostanziale della clausola, come affermato dalla Cassazione, impone la forma necessaria per l’oggetto del contratto e quindi in ipotesi di beni mobili, non è necessaria alcuna forma scritta); b)impossibilitato, sempre data tale natura, ad agire in via ordinaria, ma, si badi bene nella sussistenza di motivi di urgenza, anche in via cautelare.

Il tutto sulla scorta di una mera interpretazione e prassi giudiziaria, che, anche alla luce delle innovazioni legislative pare debba essere oggetto di attenta rimeditazione.

2. Passando quindi a trattare in concreto della delimitazione ed esatta circoscrizione dei limiti e contenuti, dell’istituto di natura sostanziale definito arbitrato irrituale ci si accorge che ancora oggi la questione relativa alla sua esatta configurazione, pur data per scontata la generale natura sostanziale dell’istituto, costituisce questione ancora aperta e quindi oggetto di discussione da parte sia della dottrina che, quanto meno in parte, della giurisprudenza.

La Suprema Corte[23] a partire da circa vent’anni, ha iniziato una evoluzione nel senso di, acclarata la natura sostanziale dell’istituto, evitare una presa di posizione precisa e di entrare troppo approfonditamente nella diatriba dottrinale relativa al contenuto sostanziale dell’istituto, affermando

La ricorrenza di un arbitrato libero od irrituale, cioè di un mandato conferito agli arbitri per la composizione di una determinata controversia mediante atto negoziale riconducibile alla volontà dei mandati, e come tale vincolante nei confronti dei medesimi, non postula necessariamente che detta composizione abbia natura transattiva, con reciproche concessioni, atteso che quel mandato può contemplare ampi poteri per la definizione della contesa, anche con l’accertamento della totale infondatezza della pretesa di una delle parti.

Nello stesso solco si pone Cass. Civ. 3 dicembre 1981 n. 6414 la quale ritiene generalmente, che “si ha arbitrato rituale quando la clausola contrattuale è diretta a conferire all’arbitro o agli arbitri l’incarico di risolvere determinate o determinabili controversie, che sono insorte o possono insorgere tra loro, essenzialmente con gli stessi poteri ed obblighi e con gli stessi effetti della funzione giurisdizionale; si ha, invece, arbitrato irrituale quando al terzo o ai terzi si affida normalmente attraverso un mandato collettivo, il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione amichevole, conciliativa o transattiva, o mediante un negozio di mero accertamento, l’una e l’altro direttamente riconducibili alla volontà dei mandanti e da valere come contratto da questi concluso, dato che essi s’impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà.”

Alcuni giudici di merito nell’affrontare la questione della natura sostanziale, si sono spinti ad affermare, in modo inequivoco che[24] l’arbitrato irrituale sia uno strumento contrattuale liberamente scelto dalle parti per risolvere stragiudizialmente una controversia, mediante mandato conferito congiuntamente a soggetto di comune fiducia di disporre una soluzione del loro dissenso in forma negoziale.

In tal senso il Tribunale di Milano[25] ha affermato che “Nell’arbitrato rituale le parti affidano agli arbitri l’esercizio di una funzione giurisdizionale, altrimenti di competenza dell’ago; nell’arbitrato irrituale, invece, le parti pongono gli arbitri nella posizione di propri mandatari, incaricati della risoluzione della controversia con un atto di natura contrattuale, sostitutivo della volontà delle parti, e non necessariamente di contenuto solamente transattivo (potendo definire le controversie con il pieno riconoscimento del fondamento delle pretese dell’una o dell’altra parte, tramite l’applicazione di norme, principi equitativi o altri criteri).

Altrettanto esplicitamente il Tribunale di Torino[26] afferma che, data per certa la generale natura sostanziale dell’istituto, “L’arbitrato libero, avendo contenuto negoziale, può volta per volta, a seconda di quanto risulti dalla clausola compromissoria o dal compromesso in concreto predisposti, dar luogo alla formazione da parte degli arbitri di un negozio avente natura transattiva o di un negozio di accertamento.”

Salvo alcune prese di posizione decise[27], come quelle espressa da parte della giurisprudenza di legittimità più risalente, e poi superate, l’orientamento recente della Suprema Corte è nel senso di ritenere indifferente il contenuto sia esso transattivo (alla stregua di un contratto di transazione) o accertativo (contratto di accertamento) o conciliativo (alla stregua di una conciliazione stragiudiziale) dell’istituto arbitrato irrituale.

Ciò che la giurisprudenza sottolinea, in modo estremamente chiaro è la netta differenza tra arbitrato di rito ed arbitrato irrituale o libero, in relazione alla diversa natura dei due istituti.

Afferma pertanto la Suprema Corte[28], che la determinazione della natura rituale od irrituale dell’arbitrato – che, ove costituisca oggetto di ricorso per cassazione, consente alla corte la diretta cognizione dei fatti risultanti ex actis, senza limitarsi al controllo della decisione del giudice del merito, trattandosi di questione processuale che incide sulla ammissibilità dell’impugnazione della decisione arbitrale – va compiuta con riguardo alla reale intenzione delle parti, indagando, al di là delle espressioni letterali usate, se esse abbiano inteso affidare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella propria del giudice ovvero conferire loro un mandato a definire la controversia sul piano negoziale, con una decisione riconducibile alla volontà dei mandanti, alternativa, quest’ultima, della cui concreta sussistenza può assumere apprezzabile valore indiziario la previsione generale ed assoluta della mancanza di formalità nella decisione stessa, nel quadro anche del principio per cui, nel dubbio, è da privilegiare l’interpretazione che non comporta deroga alla giurisdizione.

Secondo la giurisprudenza di legittimità pertanto, paiono non meritevoli di particolare trattazione le questioni relative al contenuto in concreto o meglio alla precisa qualificazione sostanziale dell’istituto, purchè sia chiaro che trattasi di istituto sostanziale.

Sembrerebbe quasi che vi fossero delle remore ad assumere sulla questione, oggetto ancora oggi di un continuo dibattito della dottrina, una posizione netta.

Se la giurisprudenza di legittimità tace, la dottrina da sempre è divisa e manifesta orientamenti contrastanti sulla esatta individuazione del contenuto sostanziale.

RUBINO SAMMARTANO, entrando nel merito della qualificazione sostanziale dell’istituto, definisce l’arbitrato irrituale propriamente come un mandato congiunto a transigere. Afferma l’autore, che nel nostro ordinamento sembra sussistere un impedimento sistematico a consentire due accertamenti, l’uno da parte dell’arbitro rituale e l’altro da parte dell’arbitro irrituale e quindi a consentire oltre all’accertamento da parte del vero arbitro acnhe un mandato a compiere un accertamento non giudiziale ma negoziale, per giunta di diritto. Il nostro ordinamento ha infatti disegnato un solo tipo di arbitrato mentre le altre forme di componimento appartengono ( e su questo vi è una sostanziale unanimità) al diritto sostanziale. Afferma quindi l’autore che non sembra quindi esservi spazio oltre che per il mandato a transigere anche per un mandato ad accertare un diritto, per giunta secondo lo stretto diritto.

Concordano, in generale, con la natura propriamente transattiva sia SCHIZZEROTTO che VECCHIONE.

SCHIZZEROTTO, ritiene, partendo dalla natura negoziale del contratto compromissorio improprio o irrituale, che l’arbitrato irrituale costituisca un arbitraggio nella transazione, e cioè un contratto nel quale verrebbe dato incarico ad uno o più terzi di completare la transazione della controversia già stipulata dalle parti nello stesso contratto compromissorio.

VECCHIONE, invece, sulla scia di tale impostazione ritiene che la clausola per arbitrato improprio o irrituale costituirebbe comunque un mandato a definire la vertenza attraverso un negozio.

Di contrario avviso è CECCHELLA[29] il quale afferma che nello stesso momento in cui le parti stipulano il patto compromissorio irrituale non convertono le loro pretese contrastanti nei panni dimessi di una volontà conciliativa in bianco lasciata al riempimento di terzi mandatari, muniti non del potere di accertare le situazioni controverse, bensì di poteri lato sensu dispositivi ovvero modificativi dell’assetto giuridico degli interessi con rilevanza giuridica coinvolti nella controversia.

Secondo tale autore, pertanto non esisterebbe alcuna volontà conciliativa o transattivi, ma solamente la volontà di veder affermato il proprio diritto. E da tale considerazione discende la critica sia alla teoria del mandato a transigere che dell’arbitraggio o negozio di accertamento.

L’impostazione del CECCHELLA risulta peraltro conforme alla tesi cd. unitaria espressa dal FAZZALARI[30] il quale proporrebbe una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, che comprenda sia l’arbitrato rituale che quello irrituale, affermando che quando si parla di arbitrato sia esso rituale o irrituale si parla di unico genere, e cioè quello dell’arbitrato[31], genere che è caratterizzato dal fatto che ci si trova di fronte a strumenti di soluzione di una lite per mezzo di un giudizio, comunque posto al termine di un processo.

Non ci si può nascondere che l’arbitrato “irrituale” così come delineato dalla copiosa giurisprudenza della Suprema Corte, sul tema, costituisca un “unicum” del sistema italiano, e necessiti, anche in prospettiva europea, di una delimitazione univoca relativamente al contenuto, alle regole ed alla disciplina applicabili.

E’ ben vero, come ritenuto da alcuni autori[32] che la differenza che caratterizzerebbe l’arbitrato irrituale non può rinvenirsi nel fatto che agli arbitri “irrituali” sia stato conferito un mandato al fine di stipulare, un “negozio di accertamento” di natura sostanziale, in quanto l’attività svolta dagli arbitri in cui si concreterebbe tale negozio di accertamento corrisponderebbe ad una vera e propria attività giurisdizionale in senso stretto, del tutto identica all’attività svolta dagli arbitri rituali.

Si deve infatti osservare che la causa di tale contratto atipico, è proprio quella di risolvere una situazione giuridicamente incerta e cioè accertare dei fatti e configurarli giuridicamente in modo da risolvere tra le parti un eventuale ed ipotetico “motivo del contendere”.

D’altronde neppure la configurazione alla stregua di un mandato a transigere pare cogliere nel segno, laddove, come rilevato da CECCHELLA, è realistico ritenere che le parti, conferendo mandato irrituale, non intendono né rinunciare né lasciare campo libero ad una volontà conciliativa inesistente.

3. Ma da tali considerazioni, nasce spontanea la domanda, che affligge da tempo immemorabile la dottrina: quale è allora la effettiva natura dell’istituto?

E’ la stessa domanda che è posta in modo non corretto, ritenuto che la problematica che rileva al fine di un esatto inquadramento sistematico dell’istituto, non è tanto o meglio non è solo quello della qualificazione (transazione, mandato a transigere, conciliazione, etcc..) ma quella della esatta individuazione dei limiti e del contenuto dell’istituto.

La risposta alla domanda, potrebbe d’altronde riassumersi assai semplicisticamente, nell’affermazione secondo la quale l’arbitrato irrituale o improprio ha natura mista, ed nel lodo si concreta un contratto atipico, che, nei limiti e con le precisazioni di seguito esplicitate, risulta superare il vaglio di meritevolezza della tutela.

Ma con ciò non si risponde in concreto alla questione posta.

Abbiamo infatti già rilevato che, secondo la prassi giurisprudenziale, si riscontra una certa contraddittorietà, in alcune caratteristiche ritenute proprie dell’istituto dell’arbitrato irrituale.

Abbiamo poi sottolineato che in molti casi la Suprema Corte, ma soprattutto parte della giurisprudenza di merito, legittima una terza forma di arbitrato, che pare non ammissibile nel ns. ordinamento, e cioè un arbitrato a metà tra il rituale e l’irrituale, e cioè un arbitrato che avrebbe natura sostanziale, ma al quale andrebbero applicate anche alcune regole procedurali, e così via.

Il problema della qualificazione nasce a mio avviso, da un errato utilizzo, da parte della giurisprudenza citata, degli indici rivelatori della sussistenza di uno o dell’altro tipo di istituto.

Come già rilevato se si parte dalla considerazione, pienamente condivisibile che sia la natura sostanziale del risultato finale e dell’oggetto del mandato conferito ai mandatari – arbitri irrituali, rispetto all’arbitrato rituale, deve operarsi sul piano ermeneutico al fine di distinguere correttamente i due istituti, e quindi al fine di correttamente delimitare l’ambito di operatività dell’arbitrato irrituale.

Ed è evidente che non possiamo, se non a pena di una totale equiparazione all’arbitrato rituale, intendere l’arbitrato irrituale alla stregua di un sistema di risoluzione di controversie affidato a privati, i quali esercitano una potestà del tutto simile alla potestà giurisdizionale, ma svincolato dalle necessarie garanzie che sono state approntate dall’ordinamento per l’arbitrato rituale.

A parte la considerazione che un tale istituto non parrebbe superare il vaglio di meritevolezza, sarebbe quanto meno contrario a logica stabilire nel codice di rito delle regole procedurali ben delineate e delle norme di ordine pubblico e inderogabili, per l’arbitrato inteso come coacervo di regole procedurali finalizzate alla risoluzione di una controversia, quando le parti possono optare per un identico sistema di risoluzione della controversia, ma senza vincoli di alcun genere. Se si accede a tale interpretazione, l’equiparazione tra i due istituti, parrebbe totale, e l’affermazione della natura sostanziale dell’uno rispetto all’altro, non sarebbe null’altro che una fictio juris, priva di alcun rilievo sistematico.

Né si venga a dire che comunque vi sarebbe una caratterizzazione dell’istituto, proprio a cagione della mancanza di regole, individuando la differenza tra i due istituti sotto il profilo della sussistenza o carenza di regole procedimentali.

A parte la considerazione che nell’arbitrato rituale l’art. 816 C.p.c. stabilisce che vi sia una generale libertà delle parti nella determinazione delle regole delle parti, non si può non rilevare che le regole procedimentali inderogabili dettate dal codice in materia arbitrale, riguardano solamente gli aspetti più importanti posti a presidio del corretto svolgimento di qualsivoglia procedimento in senso lato, e non si vede il perché debbano risultare non applicabili a qualsivoglia arbitrato.

Sulla scorta di tale dubbio la risposta verrebbe naturalmente dalla teoria unitaria, la quale, ritenendo sussistere minime differenze tra i due istituti, risponderebbe e risponde ritenendo certamente applicabili i fondamentali principi dettati per qualsivoglia arbitrato anche all’arbitrato irrituale.

Ma abbiamo visto che tale scelta, che porterebbe, nei fatti, ad una estinzione per “inutilità” dell’arbitrato irrituale[33] non può essere condivisa, anche se occorre sottolineare che nella prassi in moltissimi procedimenti definiti anche dalla giurisprudenza come irrituali, si celano, per modalità esecutive, norme applicate, criteri distintivi, natura delle statuizioni degli arbitrati rituali a tutti gli effetti.

E l’unico prezzo che si deve pagare per evitare una dannosa confusione tra i due istituti, o addirittura l’estinzione dell’arbitrato irrituale[34] è l’assumere quali indici rivelatori di una scelta delle parti verso un mandato volto a definire in via sostanziale la res litigiosa, l’effettività della natura sostanziale dell’oggetto del mandato conferito, effettività che deve essere vagliata dall’interprete, come dicevano nel precedente paragrafo con un evidentemente maggior rigore.

Tale caratterizzazione dell’istituto sostanziale definito “arbitrato” irrituale, deve quindi necessariamente rinvenirsi in una serie di differenziazioni “forti” e pregnanti, rispetto all’arbitrato di rito.

In tale ottica non possiamo considerare indice rivelatore della natura sostanziale del rapporto la definizione di amichevoli compositori o similari, ma, in ossequio alla necessaria differenziazione, dobbiamo considerare che costituisca indice rivelatore della natura sostanziale il fatto che i mandatari, ai quali le parti si sono rivolte per risolvere la controversia mediante la stipula di un negozio di natura sostanziale, non siano in posizione di neutralità, ma siano, come è più proprio di un rapporto sostanziale in posizione di parziarietà, dovendo, ciascuno perseguire gli interessi del proprio mandante.

Sarà pertanto indice rivelatore di un rapporto processuale e quindi di una richiesta di arbitrato rituale delle parti (anche se eventualmente di equità, o non appellabile) la scelta di un numero dispari dei mandatari, la imposizione di un obbligo di neutralità rispetto alle parti stesse, l’applicazione di regole processuali proprie dell’arbitrato rituale, quale la previsione dello scambio di memorie, di termini per il deposito di documenti e simili.

Ciò non tanto perché risulta inammissibile, da un punto di vista sostanziale, la neutralità del mandatario, magari congiunto, ma quanto perché è proprio di una struttura propriamente processuale la previsione di soggetti in posizione di terzi, super partes, che decidano sulla questione controversa.

Tale configurazione e delimitazione dell’istituto, sembra quella più corretta, da un punto di vista sistematico, anche se occorre sottolineare che la giurisprudenza, specialmente di merito, sembra rivolta ad accogliere una nozione, in concreto, dell’arbitrato libero o irrituale, nel senso di riconoscere in esso una manifestazione di autonomia delle parti e quindi la facoltà per le stesse di una ampia e libera determinazione, negoziale, in proposito, piuttosto che nel senso, in prospettiva futura, sopra delineato.

Devesi pertanto, pur ritenendo che l’intepretazione e configurazione sopra delineata costituisca un punto di partenza fondamentale per una più corretta delimitazione dei limiti dell’istituto arbitrato irrituale, partire dalle considerazioni svolte dal dato giurisprudenziale, e quindi dalla realtà fattuale del nostro ordinamento.

Dalla considerazione generale della giurisprudenza e della dottrina richiamata, può in conclusione affermarsi che l’arbitrato irrituale, o meglio l’atto di determinazione del o degli arbitri liberi abbia natura sostanziale e precisamente natura “contrattuale”, e che lo stesso si debba qualificare come un contratto atipico, che, nei limiti e con le precisazioni sopra specificate, risulta superare il vaglio di meritevolezza di cui all’art. 1322 Codice Civile[35].

Che il contenuto di tale contratto sia “complesso” partecipando di più elementi ora assimilabili ad un mandato congiunto ora ad un negozio di accertamento ora all’arbitraggio e simili, questo è indiscutibile.

Ma altrettanto indiscutibile è il fatto che una volta individuata la natura concreta dell’istituto, ed il suo contenuto e delimitazione, la discussione sulla precisa natura dello stesso, costituisce discussione piuttosto sterile.

Non tanto perché non sia, in linea estremamente astratta, utile sussumere il contratto atipico così delineato sotto l’egida più dell’arbitraggio che del negozio di accertamento, quanto perché una volta chiarita la questione sulla natura dell’istituto, nel senso sopra delineato, si è già arrivati a: a)stabilire, la generale disciplina applicabile, e cioè le generali norme dettate per ogni contratto, e quindi forma, contenuto, risoluzione, etcc..; b)le conseguenze inerenti all’inadempimento, e quindi gravità, risarcimento del danno, etcc..; c)le possibilità ed i limiti per far valere eventuali vizi della volontà, nella determinazione, etcc..

D’altronde risulta anche difficile stabilire, preventivamente, la qualificazione di questo istituto ritenuto che il contenuto della pattuizione contrattuale può naturalmente assumere connotazioni sempre più diverse, a seconda della clausola o del compromesso intercorso, della volontà espressa dalle parti, etcc…

Vale peraltro la pena a conclusione di tale trattazione, riportare l’affermazione, pienamente condivisibile di BENATTI[36], il quale ritiene che anche a voler seguire la tesi tradizionale, la soluzione prospettata per l’arbitrato libero non muta. Secondo l’autore “esso è orami entrato a far parte del diritto applicato; è un istituto presente nella nostra esperienza giuridica ed accolto dall’ordinamento. Se questo è vero, e cioè che il legislatore riconosce ai privati il potere di regolare negozialmente la soluzione delle loro controversie, ciò implica necessariamente, che esso riconosce che in quel potere è ricompresso anche quello di forgiare la fattispecie: così non si contraddice alla notazione di Irti, secondo cui la delega ai privati del potere di descrivere la fattispecie è riservata al legislatore “che ne userebbe con misura e discrezione”: un suo uso è fatto con l’inserimento dell’arbitrato libero nel sistema attraverso l’art. 1322 Codice Civile.”

5. Chiariti i limiti, nel senso sopra indicato, si impone quindi una brevissima rimeditazione dell’istituto confrontandolo con l’arbitrato di rito.

Ma anche in questo paragrafo non si può non prendere in considerazione, prevalentemente, il dato giurisprudenziale.

Come abbiamo sottolineato, infatti, secondo la giurisprudenza[37] ciò che caratterizza l’arbitrato irrituale è il conferimento all’arbitro (o agli arbitri) del compito di definire in via negoziale (o meglio contrattuale) le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti stesse in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse.

L’arbitrato rituale, è invece a sua volta caratterizzato dal fatto che le parti intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella propria del giudice[38].

La Suprema Corte[39] nella sentenza 04/10/94 n.8075, si sofferma sui criteri distintivi tra arbitrato rituale e irrituale. Si legge nella parte motiva che “E’ giurisprudenza di questa Corte che, al fine di accertare se una  determinata clausola compromissoria configuri un arbitrato rituale o  irrituale (cio’ che comporta esame diretto degli atti anche da parte  della Corte di cassazione ove la relativa questione incida su  problemi processuali costituenti l’oggetto del giudizio di  legittimita’, quale quello della tempestivita’ della eccezione di  arbitrato e della proponibilita’ della domanda al giudice ordinario),  deve aversi riguardo all’effettiva volonta’ delle parti desumibile  dall’intero contesto della pattuizione e non dell’una o dell’altra  delle espressioni singolarmente usate (v. Cass. sez. I, 5 settembre  1992 n. 10240).  Orbene nella specie la clausola compromissoria era del seguente  tenore: Qualora sorgessero controversie tra le parti in sede di  applicazione del presente contratto, le stesse verranno rimesse ad  arbitro, da nominarsi dal Signor presidente del Tribunale di Pavia su  richiesta anche di una sola delle parti, il quale giudichera’ in via  inappellabile e quale amichevole compositore ai sensi e per gli  effetti tutti del vigente codice civile e di procedura civile.  Da questo contesto la Corte di appello ha isolato le espressioni  “inappellabile” ed “amichevole compositore” e da cio’ solo ha tratto  la conclusione, senza peraltro neppure spiegarne il motivo, che nella  specie le parti avessero voluto un arbitrato libero.  In tal modo, pero’, la Corte di merito e’ venuta meno al dovere di  motivare in ordine alle ragioni per cui quelle espressioni isolate  dal contesto fossero da sole sufficienti a definire la clausola  compromissoria come di arbitrato irrituale; non ha, inoltre,  considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la mera  circostanza che le parti abbiano qualificato gli arbitri come  amichevoli compositori, ovvero che la loro decisione debba essere  resa inappellabilmente, non e’ sufficiente a fare ritenere che esse  abbiano voluto un arbitrato libero anziche’ rituale (v. Cass. sez. I,  14 luglio 1983 n. 4832), poiche’ anche nell’arbitrato rituale e’  ammesso il giudizio di equita’ ed e’ prevista la possibilita’ di  stabilire la non impugnabilita’ del lodo, come si desume dall’ultimo  comma dell’art. 829 c.p.c.; non ha, infine, tenuto conto del contesto  della clausola e del significato da attribuire alle altre espressioni  contenute nella stessa in base alle quali all’arbitro era attribuito  il potere di giudicare ai sensi e per gli effetti tutti del vigente  codice civile e di procedura civile.  In particolare il “potere di giudicare” attribuito all’arbitro  avrebbe dovuto essere oggetto di particolare attenzione da parte  della Corte di merito, atteso che cio’ che differenzia l’arbitrato  rituale da quello irrituale sta nel fatto che con il primo le parti  intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella  propria del giudice, mentre con il secondo esse conferiscono  all’arbitro un mandato a definire la controversia sul piano  negoziale, con una decisione riconducibile alla volonta’ dei mandanti  (Cass. sez. I, 18 novembre 1992 n. 12346).”

La Corte afferma quindi che, non può ritenersi sufficiente nell’analisi interpretativa, limitarsi da analizzare alcuni termini e che quindi deve valutarsi in concreto la volontà delle parti. Non è questa la sede per la trattazione precisa dei criteri interpretativi relativi alla sussistenza o meno di una clausola per arbitrato irrituale o invece rituale.

Senza riprendere la questione già trattata nei precedenti paragrafi, in ordine alla qualificazione contrattuale e sostanziale dell’arbitrato irrituale, rispetto alla natura processuale dell’arbitrato rituale, occorre rilevare che anche in ordine a tale questione la dottrina manifesta opinioni divergenti.

PUNZI [40] afferma che per evitare errori interpretativi, prima della riforma era necessario che le parti avessero espresso la loro opzione fondamentale, manifestando chiaramente la loro volontà e precisando se gli arbitri dovessero o meno osservare, nello svolgimento del procedimento e nella formazione e nella pronuncia del lodo, le norme previste dagli art. 806 e segg..

Riteneva infatti l’autore che il criterio interpretativo fondamentale per la distinzione dei due istituti, nel solco della sua adesione alla tesi cd. unitaria, derivasse dall’obbligo o dall’esonero espresso, consacrato nella clausola compromissoria, di osservare la normativa di cui all’art. 806 e ss. Nel caso in cui nella clausola compromissoria vi fosse manifestato dalle parti l’esonero dalle formalità procedurali prescritte nel codice di rito, ci si sarebbe trovati di fronte ad un arbitrato irrituale.

D’altronde, prosegue l’autore[41] “Oggi ..omissis.. il dilemma contrattualità-giurisdizionalità dell’arbitrato non ha più ragion d’essere: si ha, come si è già detto, un unico arbitrato, disciplinato dalla normativa contenuta nel codice di procedura civile, ma sicuramente appartenente all’area del diritto privato…”

La tesi del PUNZI, peraltro coerente rispetto alle premesse poste dall’autore, risulta ampiamente contraddetta dal dato giurisprudenziale. La permanenza anzi la maggior proliferazione dell’arbitrato irrituale trova fondamento infatti in una giurisprudenza in materia, assai copiosa, e dalla quale pare ricavarsi che l’arbitrato irrituale non abbia per nulla risentito della riforma attuata nel 1994.

VERDE[42] ritiene che se di distinzione può parlarsi ancora, essa trova il suo fondamento che le parti abbiano escluso a priori una omologazione del lodo, mentre CECCHELLA[43], a sua volta, ritiene che le prime fattispecie a destare non pochi disagi ricostruttivi sono costituite dai concreti patti compromissori stipulati da cui si deve trarre interpretativamente la natura dell’arbirato voluto dalle parti.

L’ampia ricognizione effettuata dall’autore, sulla quale torneremo al capitolo dedicato all’interpretazione della clausola compromissoria, permette di affermare che la Cassazione procedendo ad una individuazione del criterio distintivo, sulla scorta della dicotomia contratto- giudizio, non individua però in concreto quale possa ritenersi l’indice sintomatico della sussistenza dell’uno o dell’altro istituto, dando solo dei criteri di massima in negativo.

Quando infatti si afferma che

“In tema di arbitrato, l’interpretazione del contenuto di una clausola compromissoria (così come di ogni altra manifestazione di volontà negoziale) è devoluta al giudice di merito, presupponendo essa la ricerca della comune intenzione delle parti mediante l’accertamento del significato semantico delle espressioni usate, nonchè l’apprezzamento dei comportamenti soggettivi (eventualmente) rilevanti[44]

Oppure che

“In tema di interpretazione di una clausola compromissoria, il carattere rituale ovvero irrituale dell’arbitrato in essa previsto va desunto con riguardo alla volontà delle parti ricostruita secondo le ordinarie regole di ermeneutica contrattuale, ricorrendo la fattispecie dell’arbitrato rituale quando sia stata demandata agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, integrandosi, per converso, l’ipotesi dell’arbitrato libero quando il collegio arbitrale sia stato investito della soluzione di determinate controversie in via negoziale, mediante un negozio di accertamento ovvero strumenti conciliativi o transattivi[45].”

risulta evidente che nessun chiaro criterio, oltre la generale affermazione, condivisibile, della natura sostanziale dell’arbitrato irrituale viene individuato dalla giurisprudenza.

Ma alcuni punti fermi possono ritenersi acquisiti. Intanto la Suprema Corte[46], è finalmente arrivata ad affermare che l’attività ermeneutica circa la natura dell’arbitrato presuppone, in sede di legittimità, l’esame e la valutazione diretta del patto compromissorio da parte della Corte, che non può limitarsi al mero controllo formale della decisione del giudice di merito, incidendo la soluzione della questione dedotta sul problema processuale dell’ammissibilità stessa dell’impugnazione del lodo per nullità dinanzi al giudice di appello, ovvero della sua eventuale impugnabilità dinanzi al tribunale per vizi negoziali.

Pertanto deve ritenersi superata la tesi della “quaestio facti” dovendosi l’interpretazione della clausola compromissoria, ritenersi ammissibile anche da parte del giudice delle leggi.

Il ché permetterà sicuramente una maggior chiarezza, quanto meno in futuro, sulla uniformità interpretativa delle clausole.

In secondo luogo l’affermazione della natura sostanziale dell’arbitrato irrituale, secondo la Suprema Corte, può comunque rilevarsi da una serie di indici, che naturalmente possono, in particolare se presenti o assenti congiuntamente nelle varie clausole ritenersi presuntivi della sussistenza o meno di un arbitrato rituale o irrituale.

In particolare, può condividersi il generale criterio interpretativo, proposto a suo tempo dal BIAMONTI[47], che peraltro si rifà ad un orientamento giurisprudenziale[48] piuttosto risalente, ma ancora attuale secondo il quale perché si possa ritenere di essere in presenza di un arbitrato libero o irrituale, occorre che le parti abbiano attribuito all’arbitro o agli arbitri il potere di decidere prescindendo da ogni forma processuale ed accertamento probatorio.

Ma come abbiamo sottolineato, in prospettiva, per evitare una possibile confusione ed estinzione dell’arbitrato irrituale, o peggio la creazione di un terzo tipo di arbitrato, processuale, ma senza regole (il chè di per sé è una contraddizione in termini) è necessario correttamente ed esattamente individuare i precisi limiti dell’istituto,

6. Si consenta in conclusione, di effettuare alcune considerazioni di natura sistematica.

Si può certamente affermare che esiste una generale categoria, implicitamente individuata dalla giurisprudenza , di clausole e “procedure” in senso lato, che sono caratterizzate dal fatto che il risultato finale immediato perseguito dalle parti non è l’ottenimento di una decisione giudiziale o di un lodo alla stessa assimilabile, ma di un atto di natura sostanziale riconducibile alla volontà dei mandanti, alla stregua di un mandato con rappresentanza.

In tale generale categoria si deve annoverare certamente l’arbitrato irrituale, nel senso sopra delineato, ma hanno altresì diritto di asilo tutte quelle procedure come le procedure di conciliazione stragiudiziale, le ADR, l’arbitraggio e finanche la perizia contrattuale.

In uno sforzo definitorio, non fine a se stesso, ma utile a fini sistematici può definirsi la categoria così delineata, come “modelli sostanziali di risoluzione delle controversie”, categoria alternativa alla contrapposta categoria dei modelli di risoluzione processuale delle controversie, nella quale categoria vanno annoverate tutte quelle procedure espressamente disciplinate dal codice di rito.

E’ peraltro evidente che, per quanto i vari tipi di modelli sostanziali di risoluzione delle controversia siano differenti tra di loro, tutti si caratterizzano per la natura sostanziale dell’atto finale, nel quale si concreta l’adempimento e l’esaurimento del mandato conferito ai mandatari-arbitri.

Tale definizione non pare far torto a nessuno. E’ infatti incontrovertibile che, pur nella natura sostanziale di tali istituti, e quindi anche dell’arbitrato irrituale, il fine di tutti tali strumenti sia quello di superare una controversia insorta o che potrebbe insorge, ma è altrettanto chiaro che tutti sono caratterizzati da una modalità di definizione o di soluzione della controversia, mediante un componimento di natura sostanziale.

E’ infatti condivisibile l’affermazione del FAZZALARI[49], e di quegli autori che sostengono una ricostruzione unitaria dell’arbitrato in generale, quando affermano che sia l’arbitrato irrituale che l’arbitrato rituale costituiscono strumenti di soluzione di una lite, ma è evidente, dalle considerazioni in precedenza svolte, che tale caratteristica[50] non pare caratterizzare più di tanto i due istituti, né tanto meno gli istituti affini.

Conclusivamente, come rileva RUBINO SAMMARTANO[51], “l’arbitrato lungi dal rappresentare l’unica alternativa al contenzioso statuale, annovera ai suoi confini una serie di istituti che, se pur da esso rigorosamente da distinguersi, hanno tuttavia con esso in comune lo scopo di risolvere quando non addirittura di prevenire, le controversie.”

E come tali, ci permettiamo di aggiungere, costituiscono comunque validi mezzi deflativi, per ovviare agli attuali problemi inerenti il procedimento civile ordinario.

Massimo Curti


[1] Si vedano ad esempio, senza pretesa di completezza gli interventi sul tema di :BORGHESI D., Un nuovo statuto per l’arbitrato irrituale. Lav. e Prev. oggi, 1998, 807;BOVE M., Note in tema di arbitrato libero. Riv. Dir. Proc., 1999, 688;CECCHELLA C., Arbitrato irrituale e attuazione giudiziale del patto compromissorio (Nota a Cass., 3 luglio 1989, n. 3189, Soc. Cariboni c. Soc. Rizzani De Eccher). Giur. It., 1991, I, 1, 1083;FAZZALARI E., Processo di arbitrato libero (Nota a Cass., sez. I, 18 gennaio 1992, n. 595, Soc. Sintesi c. Soc. Sai e Cass., sez. I, 5 marzo 1992, n. 2650, Soc. Ifet c. De Liberis). Riv. Arbitrato, 1993, 51;GALGANO F., Giudizio e contratto nella giurisprudenza sull’arbitrato irrituale. Contratto e Impr., 1997, 885;MONTESANO L., Aspetti problematici nella giurisprudenza della cassazione sugli arbitrati liberi. Riv. Dir. Proc., 1995, 1 ;RADAELLI L., L’arbitrato irrituale tra contratto e processo. Contratti, 1997, 408 ;ROVELLI L., Arbitrato e figure affini (sulla natura dell’arbitrato irrituale). Riv. Dir. Proc., 1994, 220;TOMMASEO F., Arbitratoo libero e forme processuali.Riv. Arbitrato, 1991, 743;VERDE G., Ancora sull’arbitrato irrituale. Riv. Arbitrato, 1992, 425;VOIELLO A., Per la qualificazione dell’arbitrato irrituale (il contributo della giurisprudenza). Riv. Dir. Proc., 1997, 538

[2] Cfr. Cass. civ., sez. III, 21 maggio 1999, n. 4954 in Cd. Rom. Repertorio UTET, 3, 1999

[3] Cfr. Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 1994, n. 11357 in Cd. Rom Repertorio UTET, 3, 1999

[4] Cfr. Cass. Civ. Sez.. Sent. 24/07/97 n.6928

[5] Cfr. RUBINO SAMMARTANO, IL diritto dell’arbitrato interno, Cedam, Padova, 1994, pag. 41 e ss.

[6] Cfr. SCHIZZEROTTO, L’arbitrato,

[7] Cfr. VECCHIONE, L’arbitrato, Milano, 1971, pag. 79 e ss

[8] Cfr. FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir Proc. 1968, 459.

[9] La tesi del Fazzalari ha avuto un certo seguito in dottrina. Si richiamano a tale teoria Punzi, L ‘arbitrato nel diritto italiano, in Riv. dir. comm. 1973, 343, 346; Collura, Contributo allo studio dell’arbitrato libero in Italia, Milano 1978, 204-208; Carpi, Il procedimento nel/’arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1991, 38955.; Cecchella, Arbitrato libero e processo (contributo ad una nozione unitaria dell’arbitrato italiano), in Riv. dir. proc. 1987, 881; Tommaseo, Arbitrato libero e forme processuali, in Riv. arbitrato 1991, 743 55.; Bin, Il compromesso e la clausola compromissoria in arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ..1991, 37355.;

[10] Come correttamente rilevato da BOVE, Note in tema di arbitrato libero, in Riv. Dir. Proc., 1999, 687 e ss.

[11] Cfr. BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Milano, pag. 16 e ss

[12] PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, pag. 77 e ss

[13] Cfr. BOVE, Note cit.

[14] Salvo alcune rare pronunce discordi, che non sembrano intaccare in alcun modo l’impostazione prevalente della Suprema Corte. Ritiene, ad esempio l’arbitrato irrituale un istituto di natura giurisdizionale Cass. Civ. 5 marzo 1992 n. 2650 in Foro Pad. 1993, I, 20.

[15] Afferma LA CHINA,(in L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza., Milano, 1995, pag. 9 e ss.) che “ciò che rende poco persuasiva tale distinzione è proprio il suo criterio di fondo, la differenza cioè tra soluzione della controversia mediante giudizio e decisione e la soluzione mediante transazione; infatti una sia pur superficiale esperienza pratica di queste procedure mostra che le parti controvertono e dibattono accanitamente in ogni sorta di arbitrati, e l’idea che esse passivamente aspettino che il terzo formi per loro il contenuto della transazione che poi esse vorranno è del tutto irrealistica.”

[16] FAZZALARI, L’arbitrato, , ritiene che i due istituti si distinguerebbero non perché di natura diversa (tanto il rituale quanto l’irrituale sarebbero, secondo la sua impostazione processi di natura privata) ma perché “le parti, mentre ovviamente si vincolano a ciò che l’arbitro disporrà con il lodo, non contemplano l’eventuale omologazione del medesimo, cioè il riconoscimento del lodo, da parte dello Stato, alla stregua della sentenza civile

[17] BOVE, ult. Op. cit. 740 e ss.

[18] BENATTI, L’arbitrato irrituale: la fattispecie, in L’arbitrato profili sostanziali, a cura di G.Alpa, Utet, 2000, pag. 247 e ss.

[19] In tal senso BOVE, Ult. Op. Civ. 742e ss.

[20] Cfr. WALTER, L’arbitrato irrituale: osservazioni di uno straniero, in Riv. Trim. dir. proc. Civ. 1994, 151 e ss; MONTELEONE, Il nuovo assetto dell’arbitrato, in Studi in onore di L. Montesano, I, Padova, 1997, 641 e ss.

[21] In tal senso mi ero già espresso nell’articolo, Regole sostanziali e Principi Procedurali nell’arbitrato irrituale: una antinomia insopprimibile, in Riv. Dir. Proc. Civ. 2000.

[22] Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 833

[23] Cfr. Cass. civ., 22 giugno 1981, n. 4069

[24] C.fr Trib. Torino, 15 marzo 1991, in Impresa, 1992. In tal senso si vedano anche Trib. Milano, 6 aprile 1989 in Foro Padano, 1989, I, 352; Trib. Cagliari, 22 agosto 1986 in Riv. Giur. Sarda, 1989, 385, n. LUMINOSO

[25] Trib. Milano, 7 novembre 1988

[26] Trib. Torino, 24 gennaio 1990 in Giur. piemontese, 1990, 545

[27] Si veda la massima espressa da Cass. civ., 27 marzo 1987, n. 3005( in Foro Padano, 1988, I, 404, n. RUBINO-SAMMARTANO) la quale afferma che “Nell’arbitrato irrituale deve ravvisarsi un’ipotesi di mandato negoziale con il quale le parti conferiscono agli arbitri il potere di comporre una lite in via conciliativa o transattiva, mediante la creazione di un nuovo assetto di interessi, che le parti si impegnano a riconoscere e a rispettare.”

[28] Cass. civ., sez. I, 18 novembre 1992, n. 12346 in Mass., 1992.

[29] CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 1991, 47 e ss

[30] Cfr. FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir Proc. 1968, 459.

[31] La tesi del Fazzalari ha avuto un certo seguito in dottrina. Si richiamano a tale teoria Punzi, L ‘arbitrato nel diritto italiano, in Riv. dir. comm. 1973, 343, 346; Collura, Contributo allo studio dell’arbitrato libero in Italia, Milano 1978, 204-208; Carpi, Il procedimento nel/’arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1991, 38955.; Cecchella, Arbitrato libero e processo (contributo ad una nozione unitaria dell’arbitrato italiano), in Riv. dir. proc. 1987, 881; Tommaseo, Arbitrato libero e forme processuali, in Riv. arbitrato 1991, 743 55.; Bin, Il compromesso e la clausola compromissoria in arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ..1991, 37355.;

[32] Cfr. Rubino Sammartano, L’arbitrato, Padova, 1992

[33] Cfr. PUNZI, Disegno ult. Op. cit. pag. 95 e ss. il quale afferma “Oggi pertanto, essendosi disancorate dal deposito la vita del lodo, la sua validità e rilevanza nel mondo dei rapporti sostanziali, ed infine il suo regime di impugnazione, e rilevando il decreto del giudice dello Stato esclusivamente per la dichiarazione di esecutività, la contrapposizione fra arbitrato rituale e arbitrato irritale, e con essa il dilemma contrattualità- giurisdizionalità dell’arbitrato, non ha più ragion d’essere”. In senso conforme si esprime MONTELEONE, Il nuovo assetto dell’arbitrato, in Corr. Giur. 1994, 1048 e ss;

[34] Estinzione che nei fatti non si è verificata, ritenuto che a livello giurisprudenziale continuano le decisioni che non solo ammettono in linea di principio l’ammissibilità dell’istituto arbitrato irrituale, ma continuano ad assumere come criterio distintivo tra arbitrato rituale ed irrituale la dicotomia giudizio- contratto, come d’altronde rilevato anche dagli stessi autori (Cfr. PUNZI, in nota 36) che hanno propugnato l’estinzione dell’arbitrato irrituale.

[35] In tal senso si esprime BENATTI, ult. Op cit..

[36] Cfr. BENATTI, ult. Op. cit.

[37] Cfr. la già richiamata Cass. civ., sez. III, 21 maggio 1999, n. 4954 in Cd. Rom. Repertorio UTET, 3, 1999

[38] Cfr. Cass. civ., sez. III, 4 ottobre 1994, n. 8075 in Mass., 1994

[39] Cass. Civ. 22/05/99 n.4977

[40] PUNZI, Disegno ult. Op. cit. pag. 95 e ss

[41] PUNZI, ult, op. pag. 97

[42] VERDE in AA.VV, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 1997, 13 e ss. In senso conforme si veda MIRABELLI GIACOBBE, Diritto dell’arbitrato, Nozioni Generali, Napoli, 1994, pag. 8 e ss.

[43] CECCHELLA, Ult. Op. cit. pag. 67 ess

[44] Cfr. Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 833 in Foro It., 1999, I, 455

[45]Così in Cass. civ., sez. I, 23 giugno 1998, n. 6248 in Mass., 1998

[46]Cfr. Cass. civ., sez. I, 23 giugno 1998, n. 6248 in nota prec.

[47] BIAMONTI, voce Arbitrato, in Enc. Dir. op. cit. 946 e ss

[48] Cfr. Cass. Civ. 11 luglio 1957 n. 2775; nonché Cass. Civ. 4 maggio 1955, n. 1240 e Cass. Civ. 28 febbraio 1951, n. 507.

[49] Cfr. FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir Proc. 1968, 459.

[50] A ben vedere anche la transazione costituisce un generale strumento di soluzione di una lite, ma è chiaro a tutti che il contratto di transazione, così come definito dall’art. 1965 Codice Civile, nulla ha direttamente a che vedere con il procedimento arbitrale.

[51] Cfr. RUBINO SAMMARTANO, op cit. pag. 1