Sulla giurisdizione dell’AGO in tema di fermo di veicolo disposto ai sensi del DPR 6021973.

Sulla giurisdizione dell’AGO in tema di fermo di veicolo disposto ai sensi del DPR 602/1973.

Di Massimo Curti e Luigi Liambo Lovato

1. La sentenza del Tribunale di Parma, quivi riportata, costituisce l’ennesima pronuncia sul tema[1], di estrema attualità, dei rimedi esperibili contro il provvedimento di fermo di veicolo. Nel caso di specie il Tribunale di Parma, afferma la radicale nullità del provvedimento di fermo adottato, in quanto il provvedimento è stato emesso a disciplina incompleta mancando, ad oggi, la promulgazione del decreto ministeriale attuativo di cui al quarto comma dell’art.86 D.P.R. n°602/1973.

Argomenta il Tribunale che, tale provvedimento era da considerarsi inesistente in quanto emesso sulla scorta di una disciplina legislativa, introdotta con il D.L. n° 669/1996 convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 1997 n° 30 e successivamente modificato dal D.lgs. n°46/1999 e dal D.lgs. n°193/2001, incompleta e, come tale, del tutto inefficace in quanto non è stato ancora promulgato il decreto attuativo che deve regolamentare specificamente le concrete modalità attraverso le quali un concessionario di pubblico servizio possa legittimamente disporre il provvedimento in questione.

Effettivamente deve rilevarsi che l’art. 86 del D.P.R. n°602/1973, come modificato dal citato D.lgs. n°46/1999 e n°193/2001, nell’istituire il fermo di bene mobile registrato, prevede espressamente la promulgazione di un “…decreto del Ministero delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici…” affinché siano stabiliti “…le modalità, i termini e le procedure per l’attuazione di quanto stabilito nel presente articolo”.

La lettera della norma è assolutamente esplicita. A ciò si aggiunga che il previsto intervento di tre ministeri (Finanze, Interno e Lavori Pubblici) ai fini dell’emanazione del citato decreto rende ad evidenza indiscutibile l’ importanza che il legislatore stesso ha conferito alla materia in esame, vista soprattutto la delicatezza degli interessi in gioco nonchè l’elevato grado di coazione del provvedimento stesso, determinante infatti l’assoluta incapacità di uso e disposizione del bene colpito dal provvedimento.

Come affermato dalla recente giurisprudenza di merito la mancata promulgazione del decreto attuativo, che deve configurasi come atto di normazione secondaria volto a introdurre moduli operativi predisposti con adeguati criteri e finalizzati a recepire i principi dei citati D.lgs. n°46/1999 e n°193/2001, rende del tutto inapplicabile la normativa primaria costituendo tale regolamento il previsto (v. art.86 comma quarto D.P.R. n°602/1973) e necessario completamento dell’istituto del fermo di bene mobile registrato.

Nel caso di specie la normazione secondaria è ancor più necessaria ai fini della legittimità dell’azione dell’organo che dispone il provvedimento di fermo, in quanto trattasi di una società privata che, in forza di concessione, gestendo un pubblico servizio persegue un interesse pubblico congiuntamente però al proprio interesse privatistico del perseguimento dello scopo di lucro.

Pertanto assolutamente si impone che l’emananda normativa secondaria intervenga al fine di delimitare con certezza il potere di disporre il provvedimento. Compito della normazione secondaria dovrà appunto essere quello di regolare l’esercizio di un tal potere, affinchè l’uso dello stesso potere rientri in uno schema di azione predefinito, e come tale costituisca pertanto esercizio di un potere delimitato, anche a fini garantistici, sovrapponendosi quindi ad un uso della forza tendenzialmente arbitrario.

La funzione principale dell’azione amministrativa è infatti l’attuazione della norma in vista della “giusta” composizione degli interessi: “giusta” perché conforme allo schema d’ordine che l’atto amministrativo è destinato ad attuare. Va da sé che la “giusta” composizione degli interessi non può esserci qualora l’atto amministrativo sia carente di regolamentazione giuridica[2].

Non può non vedersi di quale portata sia la profonda rivoluzione che tale normativa ha di fatto operato nella parte in cui ha previsto che l’Amministrazione, nella specie il Concessionario, sia esonerata dal seguire le regole del codice di procedura civile valevoli per tutti i cittadini dello Stato potendo infatti disporre essa stessa il fermo del bene.

In considerazione del fatto che è poi lo stesso legislatore a voler concretare “… le modalità, i termini e le procedure per l’attuazione…” dell’istituto del fermo di bene mobile registrato tramite un decreto ministeriale che faccia sì che il provvedimento in esame non divenga uno strumento coattivo se non addirittura estorsivo nelle mani delle società di esazione, va affermata pertanto l’assoluta inesistenza del potere in capo al concessionario di disporre la misura in oggetto.

La nozione di carenza di potere del soggetto che ha emanato il provvedimento autoritativo è stata introdotta dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione in funzione della definizione di quella particolare nullità che è  l’inesistenza dell’atto.

La difformità dell’atto amministrativo dalla norma che ne disciplina l’esistenza e ne orienta le finalità infatti lo ascrive alla categoria degli atti viziati: l’atto viziato è purtuttavia un atto invalido ma esistente.

Per contro un atto amministrativo che non trova nel sistema giuridico una base normativa compiuta è un atto inesistente e pertanto è un non atto, né sano né viziato[3].

Costituisce orientamento consolidato della Suprema Corte di Cassazione quello secondo cui lo strumento del fermo di cui all’art.69 r.d. 18 novembre 1923 n°2440 si configura come strumento cautelare necessario alla protezione del pubblico interesse connesso alle esigenze finanziarie dello Stato ma che, importando un affievolimento dei diritti dei privati, può ammettersi soltanto in presenza di un’espressa normazione[4].

Sulla base di tali argomentazioni, seppur riferite ad altro tipo di fermo, in mancanza di una espressa normazione seppur secondaria, deve affermarsi che il provvedimento di fermo di beni mobili registrati emanato in carenza di potere, essendo affetto dal vizio più grave in quanto non ancorato a una base normativa compiuta, è inidoneo a produrre qualsivoglia effetto e soprattutto a degradare la posizione di diritto soggettivo del destinatario dell’atto in interesse legittimo, ed è quindi suscettibile di disapplicazione da parte del giudice ordinario nanti al quale il diritto è fatto valere[5].

E’ infatti evidente che la carenza di potere può presentarsi sia come carenza in astratto sia come carenza in concreto.

Tuttavia nel caso della carenza di potere in concreto il potere non manca totalmente: sia pur ridotta, una estrinsecazione del potere sussiste, perché in astratto esso c’è, in quanto le norme attributive del potere sono state osservate. In quest’ultimo caso infatti non sono state rispettate norme ulteriori e aggiuntive, che pongono limiti all’esercizio di esso a protezione dell’interesse del singolo. Si pensi al decreto di espropriazione per ogni altro verso conforme all’ordinamento emanato però dopo la scadenza del termine fissato ai sensi di legge nella dichiarazione di pubblica utilità. L’atto è posto in violazione di una norma di relazione che individua un presupposto in concreto per l’esercizio del potere in questione[6].

Argomentando a contrario dalla succitata esposizione in ordine al vizio di carenza di potere in concreto, nel caso che qui si discute, nel quale cioè si è in presenza di un provvedimento emanato addirittura in mancanza della prevista normativa di attuazione, si è pertanto di fronte a una fattispecie ascrivibile alla carenza di potere in astratto.

Nessuna valenza può quindi riconoscersi ad un provvedimento che non sia espressione diretta di una norma di diritto positivo atteso che la locuzione letterale dell’ultima comma dell’art.86 D.P.R. n°602/1973 pone una correlazione inscindibile tra la procedura volta ad attuare il fermo e il regolamento attuativo nel quale trova attuazione la prima.

E ssendo quindi la posizione soggettiva fatta valere il discrimine che nel nostro sistema giuridico permette di attribuire la controversia alla Giurisdizione Ordinaria o a quella Amministrativa, ed essendo il provvedimento di fermo affetto dal vizio di carenza di potere per i motivi su visti con conseguente incapacità dello stesso di degradare la posizione di diritto soggettivo in interesse legittimo, va affermata l’assoluta incapacità di decidere la presente controversia in capo alla Giurisdizione Amministrativa, con conseguente devoluzione della stessa alla cognizione del Giudice Ordinario[7].

Nè può ammettersi la devoluzione dell’impugnativa del fermo alla Giurisdizione Tributaria (nemmeno nella più ampia sfera disegnata dall’art.12 della legge finanziaria 28 dicembre 2001 n. 448) per il fondamentale e decisivo motivo che essa riguarda le controversie aventi ad oggetto i tributi e pertanto esclusivamente quelle che attengono in via diretta e immediata all’esistenza dell’obbligazione tributaria e alla sua misura.

In questo caso non si discute infatti della debenza del tributo, ma degli effetti sul diritto soggettivo ad opera di un provvedimento emanato in carenza di potere dal Concessionario della riscossione.

2.Il provvedimento di fermo amministrativo di veicolo rappresenta senza ombra di dubbio un provvedimento di tipo coercitivo in quanto impedisce giuridicamente e fattualmente l’uso del bene colpito dal provvedimento.

Essendo pertanto il fermo di bene mobile registrato misura coercitiva nata con lo scopo di garantire la realizzazione del credito vantato dal procedente, tale istituto deve ritenersi assimilabile ad analoghi strumenti previsti dalla legge quali il sequestro conservativo di cui all’art.671 c.p.c..

Come noto il sequestro conservativo può essere esperito nei limiti in cui la legge permette il pignoramento di beni mobili e immobili. In particolare ex art.514 c.p.c. n°4 sono impignorabili “…gli strumenti, gli oggetti e i libri indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere del debitore”.

Nelle more dell’emanazione del citato decreto ministeriale di cui al quarto comma dell’art.68 D.P.R. n° 602/1973 deve quindi rilevarsi che la disciplina attualmente già emanata non abbia ad oggi una sua compiutezza e non sia pertanto sufficientemente precisa da poter già essere applicata. Conseguentemente l’indeterminatezza del procedimento costituisce, ad evidenza, una palese violazione degli artt. 3, 24 e 42 Costituzione.

Come sostiene la miglior dottrina nonché risalente giurisprudenza costituzionale, quella voluta dall’art.3 Costituzione è un’eguaglianza relativa: cioè preclusiva delle arbitrarie discriminazioni fra soggetti che si trovino in situazioni identiche o affini come pure delle arbitrarie assimilazioni fra soggetti che si trovino in situazioni diverse[8].

Risulta infatti violata la parità di trattamento fra gli esecutati tutti in quanto non può non vedersi la posizione assolutamente deteriore dei debitori di tributi i quali si trovano, ingiustificatamente, a non avere garanzia alcuna in ordine alla non sottoponibilità di taluni beni registrati di loro proprietà (quali dovrebbero appunto essere quelli relativi all’attività lavorativa del debitore) al provvedimento di fermo come invece possono invocare i debitori in qualunque altro rapporto di debito/credito.

In secondo luogo la disciplina attuale, proprio perché incompleta, permette l’inaccettabile risultato ai danni dei debitori di tributi di vedersi irrogato sostanzialmente un provvedimento di durata temporale indeterminata, assimilandosi perciò all’istituto della confisca, svincolato da qualsivoglia limite in quanto non esiste normazione primaria o secondaria che statuisca come e in cosa debba sfociare il provvedimento, e che pertanto porta alla liberazione del bene solo nel caso in cui il debito venga spontaneamente pagato o se e quando venga espropriato forzatamente.

Sotto l’aspetto del diritto di difesa non v’è chi non veda come l’inerzia del legislatore nella emanazione della disciplina attuativa (destinata a contenere -si ribadisce- modalità e procedure del fermo: elementi, questi, neppure contenuti nel D.M. n°503/1998) comprometta irrimediabilmente l’esercizio del diritto stesso, non sussistendo alcuna disciplina che preveda le modalità per l’eventuale impugnazione o sospensione del fermo nei casi meritevoli di tutela, quale è sicuramente quello di non sottoponibilità al provvedimento degli strumenti di lavoro del debitore, analogamente a quanto avviene nel processo ordinario.

Né può sostenersi l’applicazione, nelle more dell’emananda normativa, del D.M. n°503/1998 in quanto trattasi di normazione secondaria ancorata a presupposti e adempimenti diversi e comunque superata dalle successive previsioni di cui al D.lgs. n°46/1999 e n°193/2001 che, modificando l’art.86 quarto comma del D.P.R. n°602/1973, hanno statuito la promulgazione di un nuovo decreto ministeriale. 

Per quest’ultimo motivo l’avvenuta trascrizione al P.R.A. risulta viziata in quanto effettuata sulla base di una normativa secondaria non più in vigore.

Il voler applicare il D.M. n°503/1998 contrasterebbe comunque con la lettera dell’art. 86 del D.P.R. n.°602/1973 come modificato dai D.lgs.n°46/1999 e n°193/2001 che nulla hanno previsto se non l’emanazione di un nuovo Decreto Ministeriale.

3. In conclusione, qualora non si ritenga, che il fermo di veicolo costituisca una misura accessoria all’imposta di cui si discute, nessun dubbio può sussistere sulla piena giurisdizione del giudice ordinario. E che, nel caso di fermo di veicolo, non si sia in presenza di una misura accessoria, in senso lato, all’imposta, ma in un autonomo mezzo di coazione al fine di ottenere una esazione più rapida e diretta dell’imposta stessa, pare indubitabile.


[1] Si veda in questa rivista GT 2003/ la giurisprudenza riportata e le note di

[2] (cfr. in questo senso Piraino S., “La tutela della legalità nelle anomalie endemiche dell’atto amministrativo”, in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 1999, fasc.4, p.te 2, pag.1297)

[3] (cfr. in questo senso Piraino S., cit., pag.1298)

[4]  (cfr. Cass.civ., Sez. Unite, n°7414 del 29 Luglio 1998, in Rassegna Avv. Stato, 1998, I, pag. 406; Riv. Corte Conti, 1998, fasc.4, pag.242)

[5] (cfr.Cass. civ., Sez. Unite, 25 gennaio 1989 n° 423, in Foro It., 1989, I, p.1099; Giust. Civ., 1989, I, pag.1110)

[6] (Cfr. in questo senso Casetta E., Manuale di Diritto Amministrativo, Milano, 1999, pag.486. L’Autore tuttavia nell’aderire alla medesima distinzione afferma che anche qualora la carenza di potere sia “in concreto” nulla cambia in ordine alla capacità di conoscere la controversia in capo al Giudice Ordinario)

[7] (cfr. Acquarone L., Elementi di giustizia Amministrativa,Genova, 1995, pag.75, che in proposito osserva: “…il criterio più diffuso di distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi ha riguardo alla contrapposizione tra carenza e cattivo uso del potere della p.a.: mentre di fronte alla prima il privato vanta un diritto soggettivo, egli, se contesta il cattivo esercizio del potere della p.a., e non la sua titolarità, sarà portatore di un interesse legittimo…”)

[8] (cfr. in questo senso Paladin L.,Diritto Costituzionale, Padova, 1991, pag.169. L’illustre autore così prosegue, in proposito: “…è in questi termini che l’intera legislazione ordinaria si trova assoggettata al principio generale di eguaglianza; tanto è vero che, negli ultimi anni, addirittura i tre quarti delle impugnative incidentali promosse dinanzi alla Corte costituzionale si sono fondati – in modo esclusivo o concorrente con altri parametri costituzionali- sul richiamo del principio stesso. Più precisamente, i conseguenti giudizi di legittimità costituzionale sul rispetto del principio di eguaglianza hanno per tema la ragionevolezza delle classificazioni legislative: ragionevolezza che…riguarda piuttosto la coerenza delle differenziazioni (o delle assimilazioni)…” )