Recesso dal contratto di appalto e risoluzione per inadempimento

NOTA A SENTENZA.

Tribunale di Genova, Sez. VI, Dott. Vincenzo Basoli in funzione di Giudice Unico, sentenza n. 2276/2000 pubblicata in data 14 settembre 2000.

La rilevanza di un difetto di forma nella disdetta presuppone necessariamente che le parti contrattuali non solamente abbiano assunto l’obbligazione di seguire una determinata forma, ma che abbiano anche concordato le conseguenze del mancato rispetto delle modalità previste.

Il diritto di recesso in conseguenza di un comportamento inadempiente della controparte, che trova il suo fondamento nel generale principio di cui all’art. 1453 c.c. richiamato dall’art. 1564 c.c., è applicabile al contratto di appalto avente ad oggetto prestazioni continuative di servizi.

Il caso: letteralmente dal testo.

Con atto di citazione la ditta Alfa conveniva in giudizio la società Beta chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da essa asseritamente subiti in conseguenza dell’illegittimità della disdetta dei contratti fra loro stipulati.

La ditta Alfa in particolare affermava di aver stipulato con la società Beta due distinti contratti aventi ad oggetto la pulizia di determinati locali a un dato prezzo e che la società committente, non rispettando la clausola che disponeva che entrambi i contratti avessero durata biennale, con prima scadenza al 31.12.96 rinnovabili per uguale periodo salva disdetta, da comunicarsi a mezzo raccomandata a.r., almeno trenta giorni prima della scadenza, le aveva comunicato telefonicamente, il 31.5.96 la disdetta con effetto immediato di entrambi. Tale comportamento sosteneva la ditta Alfa doveva ritenersi illegittimo ed arbitrario poiché il diritto alla disdetta poteva essere legittimamente esercitato dalle parti solo con effetto dalla data del 31.12.96 con la conseguenza che tale disdetta doveva considerarsi priva di qualunque effetto e configurava inadempimento contrattuale della società Beta e sua responsabilità per i conseguenti danni.

Questi ultimi si identificavano nella mancata corresponsione dei compensi previsti per l’intera durata dei contratti sino al 31.12.98 e quindi in una determinata somma pari a 31 mensilità.

La società Beta costituendosi in giudizio contestava quanto esposto dall’attrice deducendo che la risoluzione dei contratti aveva trovato giustificazione nel comportamento posto in essere da personale della ditta Alfa: nel corso del rapporto si erano infatti verificati vari episodi imputabili al personale della ditta Alfa e consistiti nell’asportazione di cose di proprietà della società Beta, che erano stati contestati, una prima e una seconda volta, alla titolare della ditta Alfa che aveva promesso che avrebbe allontanato il personale infedele e che tali fatti non si sarebbero verificati.

Gli episodi non erano tuttavia cessati e l’amministratore delegato della società Beta aveva intimato la consegna delle chiavi.

In diritto la società convenuta sosteneva che: a) la mancanza di disdetta per iscritto, con lettera a.r. non aveva alcun effetto sostanziale essendo sufficiente la comunicazione alla controparte contrattuale della volontà di recedere dal contratto, comunicazione della disdetta che la stessa ditta attrice ammetteva di aver ricevuto; b) la disdetta avrebbe potuto considerarsi non operante prima del 31.12.96 ove non fosse sussistita la “giusta causa” di risoluzione del rapporto costituita da ripetuti furti di cose giacenti presso i suoi locali; c) il preteso danno lamentato dalla ditta attrice non poteva considerarsi conseguenza diretta ed immediata della disdetta ma derivava dal comportamento della stessa ditta attrice che, avendone l’obbligo non aveva vigilato sui propri dipendenti; d) in via del tutto eventuale e subordinata il preteso danno non poteva essere identificato nella mancata percezione delle mesilità nel periodo dal giugno 1996 al dicembre 1996 poiché incombeva all’attrice l’onere di contenere il danno e di fornire prova.

Motivi della decisione.

La ditta attrice fonda la domanda di condanna della società convenuta al risarcimento dei danni sull’assunto in generale della inefficacia della disdetta in quanto non comunicata per iscritto, con lettera raccomandata e con efficacia immediata.

L’assunto, che ha una rilevanza duplice in quanto ove dovesse ritenersi fondato, verrebbe ad incidere (sempre secondo la prospettazione della ditta attrice) non solamente sul residuo periodo contrattuale prima della scadenza dei contratti (da giugno a dicembre 1996) ma anche sul rinnovo dei medesimi contratti alla scadenza prefissata, poiché, in mancanza di validità della disdetta, dovrebbe concludersi che vi sia stato un rinnovo tacito dei contratti medesimi, non può ritenersi fondato.

La rilevanza di un difetto di forma nella disdetta presuppone necessariamente che le parti contrattuali non solamente abbiano assunto l’obbligazione di seguire una determinata forma – e nella specie la comunicazione a mezzo di lettera raccomandata a.r. –  ma abbiano anche concordato le conseguenze del mancato rispetto delle modalità previste.

Nella fattispecie in entrambi i contratti le parti, dopo averne fissato la durata in due anni con scadenza 31/12/96, si sono limitate a concordare che: “le parti potranno riservarsi il diritto di disdetta alla scadenza del presente contratto, con raccomandata di avviso di 30 giorni”.

Il mancato rispetto della forma non è stato dunque, in alcun modo, posto in collegamento con il rinnovo dei contratti – nel senso che alla mancata adozione della forma stabilita consegua la invalidità della disdetta, il rinnovo del contratto e la sua prosecuzione tra le parti –  né è stata fatta alcuna menzione ad un inefficacia di una comunicazione verbale della disdetta, tanto che può certamente ritenersi che la generica previsione dell’uso della raccomandata per la comunicazione della volontà di disdetta non assuma altro significato e valore e non sia stata prevista se non al fine di assicurare la certezza che la notizia di tale volontà pervenga alla controparte e, nella specie, è del tutto pacifica che la disdetta sia stata intimata direttamente alla titolare della ditta attrice e che quindi non si ponga (né per la verità è stata mai sollevata) alcuna questione di mancata conoscenza della disdetta.

Peraltro dal comportamento della ditta attrice seguente alla disdetta si ricava preciso riscontro della circostanza che l’iniziale controversia non si sia mai posta, e non sia stata neppure ipotizzata, con riferimento alla forma della disdetta ed alla sua invalidita’.

La lettera del 6/6/96 – con la quale la ditta contesta la cessazione del rapporto –  implica infatti non solo, evidentemente, la conoscenza della disdetta e delle ragioni poste a suo fondamento ma anche, ed in particolare, la validità della disdetta medesima; non viene infatti in alcun modo cotestato alla societa’ convenuta un difetto di forma nella comunicazione ma, sulla base della piena efficacia e validita’ della disdetta, se ne contesta il merito vale a dire la sussistenza e fondamento dei presupposti.

La comunicazione verbale con la quale la società convenuta ha manifestato alla titolare dell’attrice la sua volontà di recedere dal contratto per inadempimeno della ditta convenuta costituisce quindi, in ogni caso valida disdetta dei contratti alla scadenza del 31/12/96, a prescindere dalla fondatezza o meno delle ragioni poste a fondamento della disdetta medesima che possono assumere rilevanza solamente nel contratto in corso.

Poste queste conclusioni, attinenti alla prima e più rilevante questione, non resta che esaminare la domanda sotto il profilo della legittimità della disdetta stessa in quanto incidente esclusivamente sulla residua durata dei due contratti (sette mesi) sino alla scadenza del 31 dicembre 1996, tenendo a mente che in questa indagine si intersecano due distinte, nella specie subordinate, questioni.

Vengono infatti in discussione da un lato il diritto di recesso in conseguenza di un comportamento inadempiente della controparte, che trova il suo fondamento nel generale principio di cui all’art. 1453 c.c. (richiamato dall’art. 1564 c.c.) comunque applicabile al contratto di appalto avente ad oggetto prestazioni continuative di servizi, e d’altro lato il recesso dal contratto di appalto ai sensi dell’art. 1671 c.c..

Quest’ultima indagine – la Corte di Cassazione (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1997 n. 8254, citata da parte convenuta) ha affermato, nella motivazione della sentenza, che: “… il diritto di recesso riconosciuto dall’art. 1671 c.c., pure essendo principalmente espressione dell’intuitus personae caratterizzante i contratti di appalto d’opera, trova la sua giustificazione anche in altre motivazioni, come le mutate condizioni economiche del committente, la sopravvenuta inutilità dell’opera, il sopraggiungere di nuove esigenze che rendano l’opera non piu’ conveniente, ecc.. Anche in tali casi è concesso al committente, senza che debba addurre alcuna giustificazione particolare, di recedere dal contratto prima della sua ultimazione senza incorrere nella responsabilita’ prevista dall’art. 1453 c.c., ma restando obblitgato solo a indennizzare l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno …” – può essere affrontata solo in via subordinata alla ritenuta illegittimità del recesso per affermato inadempimento ed, in altri termini, solo se non possano ritenersi sussistenti comportamenti di inadempimento che giustifichino la risoluzione del contratto.

Dalle risultanze dell’istruttoria emerge al contrario, ad avviso del giudicante, che tali comportamenti sussistevano ed erano di gravità tale da rendere legittimo il recesso.

Il comportamento di inadempienza della ditta appaltatrice del servizio di pulizia è stato indicato sia nelle telefonate effettuate dalla titolare della ditta Alfa dagli uffici e con telefoni della società Beta sia nella mancanza di alcuni oggetti (rotoli di carta per lettini, scarpe ortopediche per i medici, penne) che, secondo la società convenuta, sarebbero da attribuire al personale della ditta Alfa; è opportuno in proposito precisare che, per quanto risulta dagli atti, le prestazioni del servizio di pulizia venivano svolte, in ore notturne o nel tardo pomeriggio ed in assenza di personale della società Beta, dai sigg.ri X e Y.

L’uso del telefono per conversazioni anche interurbane e su “cellulari” risulta provato sia dalle stesse ammissioni della sig.ra X sia dai tabulati Telecom prodotti in giudizio della società Beta.

La sig.ra X ha dichiarato:

Mi sono state contestate dal sig. … la mancanza di questi oggetti quando mi è stata chiesta la restituzione delle chiavi e comunicata la risoluzione del contratto. Riguardo alle telefonate faccio presente che il … era a conoscenza delle medesime e si dimostrò molto adirato e mi contestò tali telefonate. Gli dissi che per le telefonate a Milano che avevo io stessa fatto ero disposta a pagarle e che non potevo sapere se la … aveva effettuato telefonate. Il sig… disse che non si doveva più ripetere e io concordai e licenziai la dipendente.Questo colloquio si svolse circa cinque mesi prima la risoluzione del rapporto. Io licenziai la dipendente subito dopo e subito dopo comunicarono le sparizioni che mi vennero contestate all’atto della cessazione del rapporto”.

Dal tabulato Telecom (righe evidenziate in giallo dalla parte convenuta), risulta che le telefonate sono state effettuate tutte in orario non di ufficio e sono tutte interurbane o dirette a telefoni “cellulari”.

Il …, amministratore delegato della società, ha dichiarato di essersi indotto al recesso dopo aver preso visione dei tabulati Telecom ed aver constatato, non senza qualche preoccupazione, la frequenza delle chiamate e la loro ripetizione al medesimo numero a distanza di pochi minuti una dall’altra; sempre il … ha precisato di aver in un primo momento contestato genericamente, in mancaza dei tabulati, l’uso del telefono.

Non pare possa contestarsi che, per la loro frequenza e ripetizione a distanza di poco tempo una dall’altra nella stessa nottata, queste telefonate contituiscano evidente inadempimento da parte della ditta attrice che giustifica la risoluzione del contratto; non si tratta di un uso saltuario, legato a necessità di comunicazione immediata, del telefono ma di una utilizzazione sistematica e prolungata che, a prescindere  da ogni valutazione di carattere penale, configura una alterazione profonda del rapporto di fiducia posto alla base del contratto di appalto continuativo di servizi, tenuto conto che la …  non ha preventimanete informato la società convenuta ed ha quindi abusato della situazione, tipica in tali contratti, di avere a disposizione senza alcun controllo, per lo svolgimento della propria attivita’, i locali e le strutture della società convenuta.

Nell’ambito di queste considerazioni non assumono alcun rilievo né l’offerta da parte della … di provvedere al pagamento delle telefonate, poiché successiva e conseguente alla contestazione, né la prima contestazione del … la quale è stata avanzata senza una effettiva conoscenza dell’entità dell’abuso, evidenziato solo dai tabulati Telecom, ed è stata necessariamente generica.

Alle medesime conclusioni – della sussistenza del fatto e della sua gravità – si deve pervenire con riguardo alla mancanza di alcuni oggetti dai locali della società convenuta.

La ricostruzione dei fatti è affidata alle dichiarazioni sempre del sig. … e della sig.ra … impiegata presso la società convenuta e che prestava la sua attività nei locali … ed è opportuno anzitutto evidenziare che le prime segnalazioni sulla mancanza degli oggetti in questione provengono proprio da tre impiegate della società.

Dalle dichiarazioni dei testimoni indicati (integrate con quelle rese in interrogatorio dal legale rappresentante della società conventa) emerge con chiarezza che le impiegate, dopo essersi accorte della mancanza di alcuni oggetti, hanno provveduto per alcune volte a prendere nota, la sera al momento di chiudere l’ufficio, della consistenza dei beni (ci si riferisce soprattutto ai rotoli di carta) ed a constatare la mattina seguente, gli ammanchi.

I due addebiti, valutati congiuntamente, consentono di ritenere che il recesso comunicato dalla convenuta all’attrice sia giustificato poiché si configura e costituisce manifestazione del principio generale di risoluzione del contratto per inadempimento, senza che quindi venga in discussione la diversa questione del recesso unilaterale del committente ai sensi dell’art. 1671 c.c. alla quale, peraltro, parte attrice non ha fatto alcun riferimento.

Per le ragioni sopra evidenziate la domanda di parte attrice va respinta.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

p.q.m.

Definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione respinte, così provvede:

  1. respinge la domanda proposta dalla ditta Alfa nei confronti della società Beta;
  2. condanna la ditta Alfa a rifondere alla società Beta le spese di giudizio …”.

Le questioni.

Il Tribunale affronta due temi e precisamente:

  1. la forma delle clausole regolanti talune modalità espressive di successivi ed eventuali negozi unilaterali destinati ad incidere sul rapporto già costuitito quale appunto la disdetta;
  2. la buona fede quale fonte di eterointegrazione del contratto.

In relazione al punto a) il problema interpretativo nasce dal fatto che alcune volte vengono pattuite forme riguardanti le modalità di esternazione della dichiarazione negoziale, altre volte invece le modalità di comunicazione della stessa alla controparte.

In materia il dibattito si è concentrato sulla applicabilità o meno  dell’art. 1352 c.c. (“Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo “) anche a tali successivi negozi unilaterali, atteso che la norma in questione si riferisce testualmente solo ai futuri contratti.

La giurispudenza ha ripetutamente affermato l’applicabilità della predetta norma ai negozi unilaterali di cui trattasi: “ … l’art. 1352 c.c. ha un’ampia portata e si riferisce a qualsiasi patto negoziale con cui le parti si impegnino ad adottare una certa forma per la prestazione di un consenso futuro. L’interpretazione restrittiva, sostenuta da un parte della dottrina, non merita di essere condivisa. Innanzitutto, la formulazione letterale della norma non è d’ostacolo all’applicazione dell’art. 1352 c.c. al più vasto campo degli atti negoziali: sebbene il legislatore abbia fatto esplicito riferimento al solo patto di adozione di una certa forma per la futura conclusione del contratto non si può trascurare che sotto lo stesso titolo II del libro IV, dedicato alla disciplina dei contratti in generale, l’art. 1324 c.c. stabilisce che, salvo diverse disposizioni di legge, le norma dettate per i contratti si osservano, in quanto compatibili, anche per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. Invero, essendo la disciplina unitaria del codice civile specificamente riferita al contratto, il legislatore ha ritenuto di non poter escludere da un’analoga disciplina gli atti unilaterali tra vivi, nella consapevolezza della realtà rappresentata dalla più ampia categoria dei negozi giuridici in generale. L’interpretazione estensiva della norma si uniforma del resto al principio di autonomia stabilità nell’art. 1322 c.c. per cui deve intendersi lasciato alla libera valutazione delle parti di regolare non solo la forma dei contratti, ma anche i consensi relativi a possibili vicende future dei rapporti già instaurati. Sotto questo profilo, l’accordo fra i contraenti circa la forma di cui tali consensi debbono essere rivestiti ben può risultare da una clausola del contratto, come parte della disciplina del sinallagma funzionale. Una ulteriore conferma dell’esattezza di questa interpretazione si trae dalla ratio legis, essendo palese che la norma si ispira alla finalità di lasciare libere le parti di stabilire le forma e le modalità necessarie per la validità ovvero per la prova di contratti e di tali atti negoziali, così da ovviare all’incertezza della loro essitenza e del relativo contenuto e da sottrarne la sorte all’esito di insicuri mezzi di prova non documentale …” (cfr. Cass. 1999/58 Cass. n. 909/80; Cass. 1922/82; Cass. 9587/87; Cass. 833/88; Cass. 9719/92; Cass. 7354/97).

La dottrina sul punto è invece divisa.

In linea con la giurisprudenza: Cariota Ferrara, Il Negozio Giuridico nel diritto privato Italiano, 1948, pag. 461 e ss.; Mirabelli, Delle Obbligazioni, dei Contratti in generale in Comm. Cod. civ., IV, 1980, pagg. 218 e ss.); per la non applicabilità dell’art. 1352 c.c.: Messineo, Il contratto in genere, I, Tratt. Dir. civ.e comm.1973, pag. 153 e ss.; Giorgianni, Forma degli atti in ED, XVII pag. 988 e ss.; Scognamiglio, Dei Contratti in generale, in Scialoja e Branca, Comm. Cod. civ. Zanichelli, 1970, 397 e ss..

Il Tribunale di Genova nella sentenza di cui trattasi, prima di fare eventuale ricorso alla presunzione stabilita dalla citata norma, ha correttamente ricostruito l’effettiva volontà dei contraenti.

In detta indagine è fondamentale verificare se le parti abbiano o meno utilizzato espressioni che fanno diretto riferimento alla forma costitutiva (ad esempio hanno pattuito una certa forma “ a pena di nullità”).

In caso positivo la mancanza della forma richiesta rende invalido l’atto unilaterale; se, invece, le parti hanno voluto la forma richiesta semplicemente come mezzo per raggiungere il fine voluto detta conseguenza non si verifica ( “… la forma, legale o pattizia, della comunicazione della disdetta, avendo il solo fine di documentare l’effettiva ricezione della disdetta, è, per sua natura e scopo, una forma richiesta ad probationem tantum, il che, se esclude che la ricezione della disdetta possa provarsi con testimoni o presunzione, non toglie, peraltro, che la disdetta sia da considerare valida (con conseguente presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c.) qualora il giudice del merito abbia accertato, attraverso la certificazione dell’ufficio postale, che la ricezione di essa è avvenuta per mezzo della raccomandata semplice. Va, pertanto, ribadito il principio, che le modalità della disdetta del contratto di locazione, che siano indicate nel contratto medesimo (raccomandata con ricevuta di ritorno) non possono integrare una forma convenzionale ad substantiam, e, pertanto, non ostano a che l’atto possa giungere all’indirizzo del destinatario con mezzi equipollenti ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 1335 c.c.” – cfr. Cass. 4083/78; Cass. 2211/89).

In relazione al punto b) il Tribunale di Genova ha ravvisato nella condotta tenuta dalla ditta Alfa un inadempimento che ha legittimato la società Beta alla risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c. norma generale applicabile anche al contratto di appalto.

Tale statuizione si conforma alla recente giurisprudenza che ritiene la buona fede un fonte di eterointegrazione del contratto. 

Non dimentichiamo infatti che la ditta Alfa ha sostanzialmente adempiuto le obbligazioni assunte (pulizia dei locali della società Beta), ma nella esecuzione del contratto d’appalto di cui trattasi non si è comportata correttamente nei confronti dell’appaltante: personale della ditta Alfa ha sottratto cose di proprietà della società Beta ed ha utilizzato indebitamente il telefono di quest’ultima.

In giurisprudenza è controverso se la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede ex art. 1375 c.c., in sé e per sé considerato (e quindi anche in assenza della violazione di una precisa clausola contrattuale), possa considerarsi inadempimento colpevole.

Un primo orientamento, meno recente, esclude che la violazione del dovere di buona fede tout-court possa costituire da sola inadempimento del contratto: la violazione del dovere di buona fede rileva solo se attraverso di essa viene leso un diritto della controparte (cfr. Cass. 357/63; n. 3250/77; 5611/80 “… in mancanza di un obbligo contrattuale, non può ammettersi una responsabilità per danni per la violazione del principio del neminem laedere se essa non incide nel rispetto dell’altrui diritto. I doveri generici di lealtà e di correttezza sono bensì entrati nel nostro ordinamento giuridico, specialmente in materia contrattuale, ma la violazione di tali doveri, quando la legge non ne faccia seguire una sanzione autonoma, costituisce solo un criterio di valutazione e di qualificazione di un comportamento. Esse non valgono a creare, di per se stessi, un diritto soggettivo tutelato erga omnes dall’osservanza del precetto del neminem laedere quando tale diritto non sia riconosciuto da un’espressa disposizione di legge; pertanto, un comportamento contrario ai doveri di lealtà, di correttezza e di solidarietà sociale non può essere reputato illegittimo e colposo, né può essere fonte di responsabilità per danni quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme …”).    

Accanto a detto orientamento si è formato un indirizzo, più recente, in forza del quale l’obbligo di comportarsi secondo buona fede costituisce invece un elemento che integra il contenuto del contratto (cfr. Cass. 89/66 “… la buona fede è uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni, che forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico che è violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato comunque improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede … “; Cass. 2503/91: “… la buona fede è contemplata varie volte nella disciplina del contratto, dal momento che le parti devono comportarsi secondo buona fede fin nella fase delle trattative (art. 1337 c.c.) ed inb pendenza della condizione (art. 1358 c.c.). Inoltre la buona fede è richiamata come criterio di interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), che, ancora, deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.), emergendo così il significato di buona fede in senso oggettivo (o correttezza), cioè quale regola di comportamento alla quale devono attenersi le parti del contratto nonché, più in generale, i soggetti di qualunque rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.). Anche se riferita al momento esecutivo del contratto la buona fede conserva la sua funzione di integrazione del rapporto, quale regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto… la buona fede non impone un comportamento prestabilito, né è subordinata a specifiche previsioni contrattuali, che, anzi, può anche imporre alle parti di operare in modo difforme e contrastante da quanto stabilito nel contratto. In altre parole, nell’esecuzione del contratto (e del rapporto obbligatorio) la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale e generale del neminem laedere …”).

Anche la dottrina sul punto è divisa.

In senso conforme a quest’ultimo orinetamento: Rodotà, Le Fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969; Bianca, Diritto civile, Il contratto, 3, Milano, 1987; Galgano, Degli effetti del contratto, Com. S.B., 1993; in opposizione e quindi escludendo la buone fede quale elemento integrativo del contratto; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Tr. C.M., II, 1988, 170 e ss; Bigliazzi Geri, Buona fede nel diritto civile, D Civ., II, 1988, 170 ss..